Meglio una busta paga più pesante della possibilità di accedere a convenzioni e servizi: meno del 20% dei lavoratori italiani è disposto a convertire parte del proprio salario in prestazioni di welfare aziendale. Ma non è solo una questione di convenienza economica.
C’è solo l’imbarazzo della scelta quando si parla di welfare aziendale, ovvero dell’insieme di iniziative che le imprese possono adottare per migliorare la qualità della vita dei collaboratori, dentro e fuori l’ufficio. Curiosando in Rete troviamo notizia di biblioteche interne, rimborsi per musei e teatri, corsi di yoga e pilates, programmi per smettere di fumare, maggiordomi per piccoli servizi personali, pet days, fino al sostegno per assistere famigliari non autosufficienti. Secondo il Ministero del Lavoro, in Italia un contratto su tre offre al dipendente la possibilità di scegliere uno o più pacchetti welfare in alternativa ai bonus. Un altro studio condotto da OD&M Consulting suggerisce che solo il 2,5% delle aziende non ha in programma di introdurre alcun progetto in questa direzione nei prossimi tre anni.
Eppure, nonostante il valore economico del servizio pareggi o persino superi il corrispettivo che andrebbe in busta paga, l’adesione dei lavoratori è spesso tiepida. Tanto tiepida da rischiare quasi di vanificare l’investimento dell’azienda e l’atteso effetto più welfare = più coinvolgimento = più produttività.
L’ingranaggio che si inceppa è in molti casi quello della comunicazione: tante imprese faticano a trovare il modo, il linguaggio e il canale giusto per condividere quello che dovrebbe rappresentare un beneficio per le persone. Troppo difficili a volte i meccanismi per accedere ai servizi, troppo radicata in qualche caso l’idea che il datore di lavoro voglia usare il welfare per coprire problemi organizzativi o altre lacune interne. Ma la comunicazione, anche ove il programma sia ben strutturato e coerente con i valori e lo stile aziendale, tende a limitarsi a strumenti freddi, come l’e-mail o la Intranet, poco adatti a motivare e ispirare chi legge.
Una comunicazione efficace dovrebbe cominciare ancora prima di decidere cosa inserire nel welfare aziendale. Dovrebbe, in altre parole, coinvolgere i lavoratori già in fase di progettazione, ascoltando le loro esigenze e attivando un dialogo costruttivo. Dalla proposta di generici servizi per conciliare casa e lavoro si potrà così arrivare a piani modulari, in cui ciascuno riuscirà a trovare il benefit giusto sulla base di necessità e preferenze personali. Potrebbe esserci qualche sorpresa, come scoprire che una quota della popolazione aziendale è più interessata a training formativi per rafforzare alcune competenze professionali, piuttosto che l’abbonamento scontato ai mezzi pubblici. Farsi carico dell’employability delle persone è, del resto, una delle nuove tendenze del welfare aziendale.
Anche sul fronte della comunicazione potrebbero essere i dipendenti a suggerire la formula giusta, mescolando canali ufficiali e occasioni informali per stimolare il confronto e la condivisione. E, quando la ruota prende a girare per il verso giusto, il vantaggio per l’azienda non è solo la felicità dei collaboratori. Se il welfare aziendale ha successo, il clima interno migliora dal 40% al 73%, l’affezione dei collaboratori dal 37% al 69%, la reputazione dal 40% al 71%. Lo conferma il Welfare Index Pmi.