Tra gli anni Sessanta e Settanta, negli Stati Uniti il professor George Gerbner studiò gli effetti della televisione sul grande pubblico per capire fino a che punto può omologare e influenzare le persone. Non trovò evidenze immediate ma formulò la ‘teoria della coltivazione’, secondo cui la TV è in grado nel lungo periodo di modellare la nostra percezione della realtà, facendoci desiderare un mondo più simile a quello che vediamo sullo schermo.
La teoria parte da un presupposto molto preciso: essendo un media di massa e monodirezionale, la TV parla a un pubblico passivo, che non può avere alcuna forma di interazione con l’emittente del messaggio. L’arrivo del web 2.0 e dei social ha cambiato il paradigma e aperto finalmente la strada a un utente attivo, che può navigare, creare e distribuire i propri contenuti, commentare e partecipare alla conversazione.
Ma siamo davvero di fronte a un utente attivo? Non esattamente.
In linea teorica, l’utente avrebbe gli strumenti per accedere a una quantità di informazioni ben più ampia di quella disponibile ai tempi di Gerbner, potrebbe confrontare fonti diverse, usare il senso critico per costruire una propria visione del mondo. In pratica, l’utente oggi tende a essere ancora più passivo nella fruizione e nell’elaborazione delle notizie – e questo accade per due ragioni principali.
Intanto perché i contenuti disponibili online sono troppi e le persone, complice anche la bulimia di informazione legata alla pandemia, hanno perso interesse per le notizie. L’acquisto e la lettura dei giornali di carta sono in continuo calo, ma anche i siti di news hanno più di una difficoltà. Secondo l’ultimo rapporto del Reuters Institute for the Study of Journalism, solo 1 persona su 4 accede direttamente ai portali o le app dei giornali, la larga maggioranza si imbatte nelle notizie riportate dai social o mentre cerca qualcosa online.
“Prima erano le persone che andavano a cercare le notizie, ora sono le notizie che vanno a cercare le persone”, ha ben sintetizzato Giulia Balducci, responsabile dei canali social de Il Post in una recente Lezione sul giornalismo. Lo stesso Reuters Institute conferma che il 56% degli utenti Facebook vede scorrere articoli e video notizie mentre si trova sulla piattaforma per altre ragioni.
L’utente è quindi più passivo perché le notizie arrivano mentre sta facendo altro, dunque non è particolarmente interessato e non presta troppa attenzione (a meno che non sia qualcosa di sensazionale con un titolo clickbait, ma questa è un’altra storia).
Non solo. Se il consumo di informazione tende a essere casuale, dobbiamo ricordare che le notizie dai social non capitano a caso. Entrano infatti in gioco gli algoritmi, che scelgono quello che vediamo sul web e i social e ci propongono contenuti sempre più vicini alle nostre convinzioni, abitudini, desideri e persino emozioni. L’utente è passivo anche perché tende a chiudersi in una filter bubble, in cui le opinioni sono polarizzate e pericolosamente aderenti a quello con cui già siamo d’accordo.
La trappola della disinformazione è in agguato. E l’idea di un utente attivo e consapevole si è – ahinoi – rivelata un’illusione. Si può invertire la rotta?
“Su base collettiva ci può essere una presa di coscienza propedeutica a innescare una maggiore attenzione e azioni più concrete in difesa della buona informazione, ma se il nostro obiettivo è migliorare il nostro habitat informativo e contrastare quotidianamente la disinformazione questo non può che essere un impegno individuale”, ha scritto Matteo Grandi presentando il suo saggio La verità non ci piace abbastanza. “Se vogliamo essere davvero informati dobbiamo diventare o tornare a essere fruitori attivi: cercando, dubitando, verificando”.