Dire che Maria è stata violentata equivale a dire che Giovanni l’ha stuprata? No. Le parole che scegliamo per raccontare una violenza non sono ininfluenti perché contribuiscono a formare la percezione che chi legge o ascolta avrà del fatto che viene descritto, delle circostanze in cui è avvenuto, della vittima e del carnefice.
Sulla rappresentazione della violenza di genere è stato scritto molto. Una delle ricerche più interessanti degli ultimi anni è quella del progetto STEP, realizzato dall’Università degli Studi della Tuscia con il coordinamento di Flaminia Saccà e in partnership con l’Associazione Differenza Donna. STEP ha indagato gli stereotipi e i pregiudizi che colpiscono le donne vittime di violenza attraverso un’accurata analisi sociolinguistica su oltre 16.700 articoli pubblicati tra il 2017 e il 2019 da 15 quotidiani nazionali e locali e circa 280 sentenze di primo e secondo grado.
Lo studio ha mostrato innanzitutto uno scollamento tra la reale frequenza dei reati contro le donne e la loro visibilità sui media. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2019 i reati più commessi sono stati i maltrattamenti familiari (51% dei casi), seguiti da stalking (31%), violenze sessuali (17%), femminicidi (meno dell’1%), tratta e riduzione in schiavitù (meno dell’1%). Sulla stampa dominano invece lo stalking e i femminicidi, cui sono dedicati rispettivamente il 53% e il 44% degli articoli analizzati da STEP. Solo il 14% delle notizie riguarda casi di violenza domestica, poco meno del 10% i casi di stupro.
“I giornali scelgono i fatti che diventano notizie (…) Gli articoli non devono essere scambiati per fotografie e conteggio dei casi reali, tuttavia questa rappresentazione sociale della realtà è già significativa”, scrive la professoressa Saccà. “Il maltrattamento in famiglia non fa notizia, quasi appunto che sia da considerarsi la norma. Ne emerge una normalizzazione di questa tipologia di violenza che rischia di lasciare le donne più sole ed indifese”.
L’indagine restituisce inoltre una rappresentazione distorta dei fatti, in cui abbondano pregiudizi e stereotipi che colpevolizzano le donne e tendono a giustificare gli aggressori. Tanto in ambito giornalistico quanto giudiziario, STEP ha evidenziato numerose ricorrenze in cui la donna viene descritta come responsabile della violenza subita (il cosiddetto ‘victim blaming’, quando si sottolinea ad esempio che la donna era vestita in modo inappropriato, aveva assunto alcolici, 0 non si sarebbe difesa con sufficiente forza) oppure l’accento viene spostato completamente sull’aggressore, privilegiando il suo punto di vista (‘himpathy’) e presentando l’atto violento come reazione, eccessiva ma comprensibile, ad un certo comportamento della vittima.
Spesso la violenza viene neutralizzata usando due tecniche in apparenza opposte: normalizzandola, ovvero derubricandola quale effetto di conflitti famigliari o relazioni fallite, oppure presentandola come fatto eccezionale, frutto di un raptus incontrollabile o agita da un soggetto chiaramente deviante. L’effetto in entrambi i casi è quello di far scomparire l’uomo e le sue responsabilità.
“La cultura patriarcale nella quale il paese è ancora immerso di fatto continua a tabuizzare l’atto di accusa di una donna nei confronti di un uomo e a “comprendere” la violenza di lui (…) in un processo di normalizzazione che finisce con il legittimarla e pertanto, col riprodurla”, commenta Saccà.
Esistono regole precise per una corretta rappresentazione della violenza di genere, contenute ad esempio nella Convenzione di Istanbul del 2011 e nel Manifesto di Venezia del 2017, e richiamate dal Testo unico dei doveri del giornalista, in vigore dal 2021. L’articolo 5 bis specifica come, nel riferire femminicidi, violenze e molestie, il giornalista debba sempre evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona, usare un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole, attenersi all’essenzialità della notizia senza spettacolarizzare la violenza né sminuirne la gravità, rispettare anche i familiari delle persone coinvolte.
Benché la sensibilità dei media sia cresciuta nel tempo, non mancano esempi anche molto recenti in cui questi principi sono stati disattesi. Come abbattere allora gli stereotipi e i pregiudizi che, più o meno consapevolmente, inquinano la rappresentazione della violenza di genere?
Serve certo un cambiamento culturale profondo. Serve un’azione educativa più incisiva nelle scuole. Serve tanta formazione: lo stesso progetto STEP ha coinvolto circa 2 mila professionisti tra magistrati, avvocati, rappresentanti delle forze dell’ordine e giornalisti con seminari e corsi sviluppati ad hoc.
La tecnologia può essere d’aiuto. Un team di ricercatori delle università di Pavia e Groningen ha messo a punto un algoritmo di Intelligenza Artificiale in grado di analizzare testi relativi a femminicidi e violenze di genere per prevedere la possibile interpretazione da parte dei lettori. Il sistema può ad esempio capire se la colpevolezza dell’aggressore risulta chiara, se ci sono aree di ambiguità, se la descrizione della vittima è filtrata da stereotipi. Il prossimo passo è lo sviluppo di una versione avanzata che, data una frase e la sua percezione, suggerisca all’autore delle alternative libere da preconcetti e meno deresponsabilizzanti nei confronti del colpevole.