vaccino
22 Dicembre 2020
Vaccino anti Covid-19, il successo dipende (anche) dalla comunicazione

Quasi il 20% degli italiani non intende sottoporsi al vaccino anti Covid-19. Una buona comunicazione può fare la differenza

Dal sondaggio condotto la scorsa settimana da Emg-Different/Adnkronos sappiamo che per il 53% degli italiani il vaccino non dovrebbe essere obbligatorio. Otto italiani su dieci sono favorevoli a immunizzarsi, ma oltre la metà preferirebbe non farlo subito e aspettare per prudenza qualche mese.

Benché l’atteggiamento complessivo sia positivo, gli esperti sanno che le resistenze da vincere sono ancora molte, e che la battaglia si gioca sul terreno della fiducia. Non basta uno spot che parla di primule, c’è bisogno di costruire un consenso di fondo nei confronti della vaccinazione, come ha ricordato Daniel Fiacchini, dirigente medico e fondatore di Rete Informazione Vaccini, in un recente intervento per l’Università di Padova: “I determinanti di esitazione che emergeranno saranno in particolare relativi alla confidence, ovvero alla fiducia: nelle industrie farmaceutiche che producono il vaccino, nelle istituzioni centrali che lo raccomandano, negli operatori sanitari che lo promuovono. Poi ci sono determinanti relativi al vaccino in sé: si tratta di un nuovo vaccino, prodotto rapidamente, autorizzato in tempi insolitamente celeri, e questi sono elementi che notoriamente generano esitazione. Infine, ci sono i determinanti individuali. Ogni persona è unica, ha il proprio sistema di valori, le proprie credenze, le proprie aspettative, la propria percezione dei rischi e dei benefici”.

Nel nostro contesto sociale e culturale, l’accesso alle informazioni relative alla salute e l’ambiente è considerato un diritto di cittadinanza, da cui ciascuno deriva la possibilità di scegliere come comportarsi per fronteggiare le minacce a cui siamo esposti. Andrebbe tutto bene, se avessimo la certezza che l’informazione disponibile fosse accurata e trasparente al 100%, e che le persone sapessero interpretarla in modo adeguato. Altrimenti il rischio può essere strumentalizzato e usato per alimentare sospetto, paura o rifiuto.

Ma come deve agire la comunicazione del rischio per essere efficace nell’orientare le scelte individuali verso comportamenti responsabili, che tutelino se stessi e gli altri? Il vecchio paradigma top-down noto come DAD (Decide, Announce, Defend) è tramontato. L’autorità, benché sostenuta da illustri pareri scientifici e tecnici, non può più limitarsi a comunicare un provvedimento, giustificarlo e pretendere che venga applicato, magari aggiungendo la minaccia di una sanzione per i trasgressori.

Che si tratti di un’istituzione, un esperto o un influencer, oggi moltissimo dipende dalla credibilità e l’autenticità di chi comunica, che deriva dalla competenza sulla specifica materia, ma anche dalla capacità di attivare una comunicazione aperta e coinvolgere chi ascolta in scelte che sono sempre più frutto di condivisione (“non lo faccio perché lo dici tu, ma perché lo voglio anch’io”) e partecipazione interessata (“non lo faccio perché fa bene, ma perché riconosco un valore per me e la mia comunità”).

Non è certo un compito facile, quello della valutazione e comunicazione del rischio. In tante situazioni, passate e recenti, abbiamo visto esasperare la minaccia con il risultato di generare apatia e rimozione (il caso H1N1 insegna) oppure, al contrario, minimizzare il pericolo per non diffondere il panico, salvo poi soffrire conseguenze molto dolorose (pensiamo alla mancata evacuazione di territori oggetto di allarme sismico o meteorologico).

Cosa fare, allora? Qualche spunto di riflessione arriva dalla psicologia sociale. Occorre innanzitutto distinguere il tipo di rischio da comunicare e come è percepito dalle persone. Ci sono minacce che il nostro sistema cognitivo interpreta come gravi perché vicine e imminenti, come il Covid-19, e altre da cui ci sentiamo psicologicamente distanti perché le vediamo come qualcosa di lontano nel tempo e nello spazio, come la crisi climatica. Lo stesso effetto di diluizione può essere causato dal pensare al problema come qualcosa di troppo grande dunque irrisolvibile, qualcosa per cui non vale la pena impegnarsi.

Intervistata da Lifegate sulle leve da attivare nella comunicazione del rischio, Simona Sacchi, psicologa sociale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, suggerisce ad esempio che quando si parla di salute, così come di ambiente, “i rischi devono essere spiegati, ma anche resi affrontabili, aiutando le persone a non avere l’impressione demotivante che le loro azioni siano inutili gocce nell’oceano. Le voci più importanti in questa sfida sono le istituzioni, i policy maker e la comunità scientifica, che gioca un ruolo fondamentale”.

Per avvicinare psicologicamente le persone, bisogna lavorare sulla prossimità fisica e temporale (“La nostra casa è in fiamme”, scrive Greta Thunberg), ma soprattutto fornire strumenti concreti con cui affrontare la minaccia. In questo senso, al bollettino giornaliero dei contagi e dei decessi da Covid-19, cui nostro malgrado finiamo per assuefarci, vanno affiancate istruzioni chiare su come evitare il contagio, proponendo il vaccino come soluzione sicura per mettere fine all’emergenza.

Un’altra strategia è quella di limitare l’uso di concetti probabilistici. “In genere le persone faticano a comprendere la probabilità in quanto teoria, mentre hanno più esperienza con la frequenza di eventi e situazioni. Quindi gli esperti devono imparare a rendere il linguaggio trasparente in questo senso”, continua la professoressa Sacchi, che ricorda l’importanza di dare visibilità alle norme sociali, intese come atteggiamenti e comportamenti che sono normali per la maggioranza.

“Questo è uno strumento potentissimo. Se noi camminiamo in una piazza pulita, non butteremo mai una cartaccia per terra, perché in modo implicito stiamo inferendo che in quel luogo la gente non si comporta così. Diversamente, se siamo in una città degradata, anche se siamo sensibili a livello ecologico, magari buttiamo il mozzicone per terra. La norma sociale esercita una grande pressione sul singolo, perché ha un forte impatto motivazionale e funziona più di qualsiasi appello a dei valori astratti”.

Perché il rischio sia compreso, abbiamo allora bisogno di una comunicazione chiara e trasparente, costruita su messaggi semplici (senza tuttavia banalizzare argomenti complessi) che rispettino le preoccupazioni delle persone. Che non lavori solo su un piano razionale, ma riesca a coinvolgerci da un punto di vista più profondo ed emozionale. Che muova all’azione, mostrandoci cosa dobbiamo fare per mitigare il pericolo, e rassicurandoci che non saremo gli unici a comportarci in un certo modo.

La campagna vaccinale anti Covid-19 sta per partire. Ce la faremo?

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