Essere visibili e credibili, senza bisogno dei media: sono sempre più numerose le imprese che mettono in campo strategie e progetti di brand journalism, trasformandosi in vere e proprie media company. Il connubio tra comunicazione e informazione è stato uno dei temi più discussi al Festival Internazionale del Giornalismo, la scorsa settimana a Perugia.
Un passo indietro. Cosa intendiamo per brand journalism? È la particolare forma di comunicazione d’impresa che, adottando tecniche e linguaggi propri del giornalismo, posiziona l’azienda o il marchio come una fonte di informazioni e notizie. Diventando una media company, ovvero l’editore di se stessa, l’impresa arriva quindi direttamente al proprio pubblico, saltando la mediazione di stampa, radio e TV.
Sebbene esploso con Internet e i social, il brand journalism non è nato con il digitale. Risalgono infatti a fine Ottocento e primo Novecento alcuni esempi di riviste e pubblicazioni aziendali come The Furrow dei macchinari agricoli John Deere o la Guida Michelin: entrambe sono nate dall’intuizione di usare il proprio know-how per costruire contenuti informativi e fattuali, attraverso i quali consolidare la reputazione del marchio. Se The Furrow raggiunge oggi quasi 2 milioni di persone in tutto il mondo e la Guida Michelin è diventata uno dei maggiori riferimenti a livello mondiale in fatto di hotel e ristoranti, è interessante notare che tutte e due hanno un’edizione digitale, ma continuano a essere distribuite anche in formato cartaceo.
Il termine brand journalism è stato coniato in tempi più recenti ed è attribuito a Larry Light, responsabile del marketing di McDonald’s dal 2002 al 2005, in un momento in cui la catena era costantemente sotto attacco perché accusata di proporre junk food. Light suggerì di “pensare come un giornalista”, ovvero di progettare la comunicazione del brand come fosse un magazine, con una linea editoriale e contenuti differenziati per regione e argomento, ma capaci di restituire un insieme dinamico, interessante e coerente. Con il brand journalism Light intendeva raccontare “la cronaca delle cose che accadono al mondo di un marchio, attraverso i giorni e gli anni”, spostando l’attenzione sulle storie, i valori e i temi che toccano le persone che lo consumano e lo vivono. Il successo della campagna I’m lovin’ it gli diede ragione.
Oggi la Rete moltiplica i canali attraverso i quali un’azienda può fare informazione, superando la comunicazione corporate e di proporre per proporre notizie e approfondimenti. Al Festival Internazionale del Giornalismo abbiamo ascoltato molti esempi interessanti. Con i magazine La Freccia e Note, Ferrovie dello Stato ha scelto di rappresentare il mondo del viaggio, segmentando la clientela e le modalità di distribuzione per essere più rilevanti. Più giovane il progetto Changes di Unipol, il cui tema dominante è il rischio, anche in questo caso declinando i contenuti su uno specifico target e utilizzando il doppio formato web e cartaceo.
Entrambe le aziende hanno costituito al proprio interno una redazione di giornalisti professionisti, elemento che caratterizza anche GE Reports. Questo quotidiano online, lanciato dieci anni fa per parlare ai dipendenti, è cresciuto fino a diventare un contenitore multimediale dove si parla di innovazione e trasformazione digitale, a cui attingono anche i media tradizionali. GE Reports è oggi molto apprezzata per i contenuti inediti e di qualità, con contributi video che hanno grande risonanza sui social.
Esperienze come queste lasciano chiaramente intendere che il brand journalism non si improvvisa. Non basta saper produrre contenuti utili, affidabili, divertenti e coinvolgenti, occorre avere un’autorevolezza e una credibilità tali da spingersi oltre il proprio perimetro di attività, lavorando in un orizzonte più ampio che abbraccia tutto il territorio in cui il brand opera e interagisce. Occorre avere risorse e competenze per dare ai contenuti la forma di un vero prodotto editoriale – sia esso una rivista o un libro, un blog o un canale social, una trasmissione TV.
Le media company ci ricordano anche è che la separazione tra marketing, ufficio stampa e PR è sempre più labile, perché sempre più sono i contenuti a guidare la comunicazione e costruire la reputazione di un brand. Soprattutto quando le aziende scelgono la strada dell’informazione, dove trasparenza e affidabilità continuano a essere i presupposti per meritare la fiducia di chi legge (e compra).
E quando le media company incontrano i media tradizionali … ma questa è un’altra storia.