Placemaking, Smart City
8 Gennaio 2019
Il placemaking per raccontare le nuove Smart City

Cittadini sempre più nomadi, attori di un mondo digitale che non ha confini, eppure in cerca di un’identità locale che passa anche dall’appartenenza a uno o più luoghi fisici. Il placemaking aiuta le Smart City a raccontare – e raccontarsi

Le stime delle Nazioni Unite parlano chiaro: oggi quasi il 55% della popolazione globale vive in aree urbane, ma la percentuale salirà al 68% entro il 2050. Considerando il tasso di crescita degli abitanti del pianeta, le città si troveranno ad avere circa 2,5 miliardi di residenti in più, di cui il 90% vivrà in Asia e Africa.

Oltre a porre seri interrogativi sull’utilizzo delle risorse naturali e le modalità con cui garantire alle persone i servizi essenziali e un adeguato livello di benessere, la crescente urbanizzazione mette in crisi il metodo finora utilizzato per il governo e la promozione del territorio.

Quando si parla di pianificazione urbana, siamo infatti abituati a vedere gli enti locali impegnati a sovraintendere il consumo di suolo e la destinazione delle diverse aree, e le società immobiliari all’opera nella costruzione di edifici e palazzi. Con l’avvento delle Smart City, è diventato imperativo prevedere tecnologie innovative a supporto dei servizi pubblici (dall’erogazione di energia all’illuminazione stradale, dai mezzi di trasporto alla raccolta dei rifiuti, ecc.), ma anche del marketing turistico e culturale, con un fiorire di siti web e mobile app.

Come ha spiegato Alessandro Scandurra di SSA in un recente intervento formativo, abbiamo imparato a valutare la bontà di un progetto urbano sommando le infrastrutture hard (il sistema viabilistico, la rete elettrica e idrica, l’illuminazione pubblica, ecc.) a quelle soft (i parcheggi e i punti di ricarica per i veicoli elettrici, la videosorveglianza, la connettività WiFi, ecc.). Molto spesso la narrazione delle nuove città intelligenti si ferma a questo livello, proponendo la tecnologia come risposta a una pluralità di istanze che spaziano dalla necessità di incrementare l’efficienza e la qualità dei servizi alla riduzione dei consumi energetici, dal miglioramento della sicurezza dei cittadini a una maggiore inclusione e partecipazione alla vita pubblica, fino all’aumento dell’attrattività per residenti, visitatori e possibili investitori.

Ma questa modalità comunicativa non è più sufficiente per coinvolgere gli smart citizen, che hanno voglia e bisogno di sentirsi parte di “comunità di vita”, come le ha definite il Presidente Mattarella nel suo messaggio di fine anno. Proprio nell’età della globalizzazione e della comunicazione digitale, la volontà di riconoscersi in un luogo fisico e appartenervi si è fatta più forte, così come l’esigenza di stabilire relazioni e connessioni che restino salde anche in uno scenario che cambia di continuo.

Non solo consumatori di beni o fruitori di servizi, i cittadini chiedono di essere protagonisti dei cambiamenti sociali, culturali ed economici che proprio nelle aree urbane hanno gli sviluppi più rapidi e significativi. Tentando una nuova comunicazione, ecco che le Smart City riscoprono il placemaking, la disciplina teorizzata intorno al 1975 dall’associazione newyorkese Project for Public Spaces (PPS) e oggi utilizzata da oltre 3.000 comunità nel mondo.

Il concetto di fondo risale agli anni ’60, quando studiosi e urbanisti come Jane Jacobs e William H. Whyte portarono alla ribalta la necessità di disegnare le città americane per le persone, non soltanto per le auto o come immensi centri commerciali. Il placemaking propone in sostanza la progettazione condivisa degli spazi pubblici, con l’obiettivo di esaltare la vivibilità dei luoghi rafforzando i legami tra chi li abita o li frequenta. Applicabile a centri urbani, piazze e quartieri, parchi e giardini, mercati e campus, questa metodologia presuppone la collaborazione e la corresponsabilità di soggetti pubblici e privati, a partire dalla fase creativa fino alla gestione operativa.

Dagli spazi per i bambini alla pratica sportiva, dalla valorizzazione della disabilità all’organizzazione di eventi culturali, i risultati del placemaking possono essere i più disparati, ma il denominatore comune è la costruzione di luoghi capaci soddisfare le reali necessità degli utenti, nell’arco della giornata, della settimana e dell’anno, diventando anima e motore di innovazione urbana, oltre che occasione d’integrazione e inclusione.

In alcuni Paesi del mondo – tra cui gli Stati Uniti, il Canada, la Francia, la Gran Bretagna e il Giappone – il placemaking ha ispirato interventi normativi ad hoc e l’istituzionalizzazione del modello noto come BID, Business Improvement District. Si tratta di aree in cui un gruppo di privati (in genere attività commerciali o imprese locali) sottoscrive un accordo con l’amministrazione pubblica e accetta di auto-tassarsi per finanziare un percorso di riqualificazione urbana. Pur chiaramente orientati a preservare il valore immobiliare della zona e promuoverne l’economia, la maggior parte dei BID ha avuto esiti molto positivi, come è accaduto a New York con la trasformazione di Bryant Park da quartiere di spaccio a punto di ritrovo e attrazione per i turisti, oppure a Londra con il completo rifacimento di Bond Street, una delle mete più note al mondo per gli appassionati di shopping. In Italia, dove i BID non hanno una vera e propria legislazione, sta crescendo a Milano l’esperienza di Cascina Merlata, nel quartiere a sud dell’area che ospitò Expo 2015.

Placemaking e BID richiedono indubbiamente una nuova alleanza tra pubblico e privato, e magari un pizzico in più di senso civico. Ma questo tipo di approccio è utile non solo per finanziare lo sviluppo urbano, ma anche per rinverdire lo storytelling delle Smart City, raccontando i luoghi attraverso ciò che accomuna le persone, le loro attività e passioni – ovvero dando un’identità fisica, culturale e sociale al territorio, e sostenendo la sua evoluzione nel tempo.

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