Cittadini sempre più nomadi, attori di un mondo digitale che non ha confini, eppure in cerca di un’identità locale che passa anche dall’appartenenza a uno o più luoghi fisici. Il placemaking aiuta le Smart City a raccontare – e raccontarsi
Le stime delle Nazioni Unite parlano chiaro: oggi quasi il 55% della popolazione globale vive in aree urbane, ma la percentuale salirà al 68% entro il 2050. Considerando il tasso di crescita degli abitanti del pianeta, le città si troveranno ad avere circa 2,5 miliardi di residenti in più, di cui il 90% vivrà in Asia e Africa.
Oltre a porre seri interrogativi sull’utilizzo delle risorse naturali e le modalità con cui garantire alle persone i servizi essenziali e un adeguato livello di benessere, la crescente urbanizzazione mette in crisi il metodo finora utilizzato per il governo e la promozione del territorio.
Quando si parla di pianificazione urbana, siamo infatti abituati a vedere gli enti locali impegnati a sovraintendere il consumo di suolo e la destinazione delle diverse aree, e le società immobiliari all’opera nella costruzione di edifici e palazzi. Con l’avvento delle Smart City, è diventato imperativo prevedere tecnologie innovative a supporto dei servizi pubblici (dall’erogazione di energia all’illuminazione stradale, dai mezzi di trasporto alla raccolta dei rifiuti, ecc.), ma anche del marketing turistico e culturale, con un fiorire di siti web e mobile app.
Come ha spiegato Alessandro Scandurra di SSA in un recente intervento formativo, abbiamo imparato a valutare la bontà di un progetto urbano sommando le infrastrutture hard (il sistema viabilistico, la rete elettrica e idrica, l’illuminazione pubblica, ecc.) a quelle soft (i parcheggi e i punti di ricarica per i veicoli elettrici, la videosorveglianza, la connettività WiFi, ecc.). Molto spesso la narrazione delle nuove città intelligenti si ferma a questo livello, proponendo la tecnologia come risposta a una pluralità di istanze che spaziano dalla necessità di incrementare l’efficienza e la qualità dei servizi alla riduzione dei consumi energetici, dal miglioramento della sicurezza dei cittadini a una maggiore inclusione e partecipazione alla vita pubblica, fino all’aumento dell’attrattività per residenti, visitatori e possibili investitori.
Ma questa modalità comunicativa non è più sufficiente per coinvolgere gli smart citizen, che hanno voglia e bisogno di sentirsi parte di “comunità di vita”, come le ha definite il Presidente Mattarella nel suo messaggio di fine anno. Proprio nell’età della globalizzazione e della comunicazione digitale, la volontà di riconoscersi in un luogo fisico e appartenervi si è fatta più forte, così come l’esigenza di stabilire relazioni e connessioni che restino salde anche in uno scenario che cambia di continuo.
Non solo consumatori di beni o fruitori di servizi, i cittadini chiedono di essere protagonisti dei cambiamenti sociali, culturali ed economici che proprio nelle aree urbane hanno gli sviluppi più rapidi e significativi. Tentando una nuova comunicazione, ecco che le Smart City riscoprono il placemaking, la disciplina teorizzata intorno al 1975 dall’associazione newyorkese Project for Public Spaces (PPS) e oggi utilizzata da oltre 3.000 comunità nel mondo.
Il concetto di fondo risale agli anni ’60, quando studiosi e urbanisti come Jane Jacobs e William H. Whyte portarono alla ribalta la necessità di disegnare le città americane per le persone, non soltanto per le auto o come immensi centri commerciali. Il placemaking propone in sostanza la progettazione condivisa degli spazi pubblici, con l’obiettivo di esaltare la vivibilità dei luoghi rafforzando i legami tra chi li abita o li frequenta. Applicabile a centri urbani, piazze e quartieri, parchi e giardini, mercati e campus, questa metodologia presuppone la collaborazione e la corresponsabilità di soggetti pubblici e privati, a partire dalla fase creativa fino alla gestione operativa.
Dagli spazi per i bambini alla pratica sportiva, dalla valorizzazione della disabilità all’organizzazione di eventi culturali, i risultati del placemaking possono essere i più disparati, ma il denominatore comune è la costruzione di luoghi capaci soddisfare le reali necessità degli utenti, nell’arco della giornata, della settimana e dell’anno, diventando anima e motore di innovazione urbana, oltre che occasione d’integrazione e inclusione.
In alcuni Paesi del mondo – tra cui gli Stati Uniti, il Canada, la Francia, la Gran Bretagna e il Giappone – il placemaking ha ispirato interventi normativi ad hoc e l’istituzionalizzazione del modello noto come BID, Business Improvement District. Si tratta di aree in cui un gruppo di privati (in genere attività commerciali o imprese locali) sottoscrive un accordo con l’amministrazione pubblica e accetta di auto-tassarsi per finanziare un percorso di riqualificazione urbana. Pur chiaramente orientati a preservare il valore immobiliare della zona e promuoverne l’economia, la maggior parte dei BID ha avuto esiti molto positivi, come è accaduto a New York con la trasformazione di Bryant Park da quartiere di spaccio a punto di ritrovo e attrazione per i turisti, oppure a Londra con il completo rifacimento di Bond Street, una delle mete più note al mondo per gli appassionati di shopping. In Italia, dove i BID non hanno una vera e propria legislazione, sta crescendo a Milano l’esperienza di Cascina Merlata, nel quartiere a sud dell’area che ospitò Expo 2015.
Placemaking e BID richiedono indubbiamente una nuova alleanza tra pubblico e privato, e magari un pizzico in più di senso civico. Ma questo tipo di approccio è utile non solo per finanziare lo sviluppo urbano, ma anche per rinverdire lo storytelling delle Smart City, raccontando i luoghi attraverso ciò che accomuna le persone, le loro attività e passioni – ovvero dando un’identità fisica, culturale e sociale al territorio, e sostenendo la sua evoluzione nel tempo.