neuromarketing
27 Novembre 2018
Le neuroscienze in soccorso del marketing

David Ogilvy ripeteva spesso che le persone “non pensano quello che sentono, non dicono quello che pensano, non fanno quello che dicono”. Con il neuromarketing, i brand tentano di capire i comportamenti dei consumatori partendo dalle loro emozioni

Nel 2011, il neuroeconomista americano Gregory Berns riuscì a prevedere il successo di alcune canzoni pop sconosciute analizzando le reazioni di 25 teenager. Mentre ascoltavano la musica, i ragazzi venivano sottoposti a una risonanza magnetica funzionale per raccogliere i dati relativi alla loro attività cerebrale. Berns dimostrò che le canzoni che scatenavano una maggior risposta a livello della via mesolimbica sarebbero state quelle vincenti, benché gli stessi soggetti negassero di aver gradito quei pezzi quando veniva loro chiesto di esprimersi attraverso un questionario.

È questo uno degli esperimenti più celebri di neuromarketing, la disciplina nata quasi vent’anni fa dalla combinazione delle neuroscienze e delle tecniche di ricerca tipiche del marketing. Lontano dallo spettro dei “persuasori occulti” di Vance Packard, il neuromarketing viene oggi usato per approfondire la conoscenza dei consumatori e dei loro processi di selezione e acquisto, ma anche per misurare l’efficacia della comunicazione e del marketing.

Se è vero che l’85% delle scelte umane dipende da elementi irrazionali, il neuromarketing cerca di comprendere cosa accade a livello neurocognitivo quando si ricevono determinati stimoli, ad esempio quando si entra in un negozio, si guarda o si prende in mano un prodotto, si naviga su un sito web, si vede uno spot pubblicitario in TV. Come spiega il prof. Vincenzo Russo del Behavior and Brain Lab dell’Università IULM, per avere informazioni attendibili la ricerca deve usare metodologie e strumenti scientifici, che vanno dalla misurazione dell’attività cerebrale tramite risonanza magnetica funzionale o elettroencefalografia, al tracciamento dei movimenti oculari e delle espressioni facciali, la misurazione di parametri biometrici come la respirazione o la sudorazione, fino al monitoraggio delle contrazioni muscolari.

Secondo AINEM, il 13% delle aziende italiane ha realizzato almeno una ricerca di neuromarketing nel 2017, e il 15% lo farà nei prossimi dodici mesi (fonte: Osservatorio sul Neuromarketing in Italia 2018), soprattutto per testare le campagne pubblicitarie prima del lancio, in buona parte correlando i risultati con le ricerche tradizionali di marketing.

Disney ha usato il neuromarketing per studiare l’efficacia dell’advertising digitale già nel 2009. Più recentemente L’Oreal ha condotto delle ricerche sull’esperienza delle persone all’interno dei punti vendita, andando a modificare di conseguenza il layout e la disposizione dei prodotti. La catena di giocattoli Imaginarium ha misurato le reazioni dei bambini a diverse colonne sonore per creare degli angoli multisensoriali nei propri negozi.

Ma le neuroscienze possono andare oltre il marketing. A Milano, ATM ha applicato la tecnica dell’hyperscanning per analizzare alcune dinamiche organizzative, in particolare le relazioni tra capo e collaboratore. Alcuni dipendenti hanno partecipato volontariamente a degli esperimenti in cui, durante un colloquio di valutazione, veniva misurata l’attività cerebrale dei due soggetti, evidenziando i momenti, le parole e i gesti in cui la comunicazione era efficace e le persone erano emotivamente connesse, e i casi in cui si creava distanza o frattura.

In situazioni più critiche, in cui il management è chiamato a condividere con i dipendenti dell’azienda una notizia quale una riorganizzazione o la chiusura di uno stabilimento, la comprensione dei meccanismi che scatenano nelle persone la paura, lo shock o le reazioni violente può aiutare a mitigare l’impatto della comunicazione e il suo carico emotivo.

Dietro il neuromarketing non c’è dunque l’intento di manipolare la volontà di chi ascolta, piuttosto il tentativo di creare prodotti e comunicazioni brain-friendly.

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