Le fake news circolano in Rete e sui social con una velocità fino a sei volte superiore rispetto alle notizie attendibili. Ma ancora più preoccupante è la crescente polarizzazione dell’informazione che viaggia online, e il confirmation bias che spinge le persone a credere solo a ciò che conferma le proprie opinioni. Lo ha spiegato Walter Quattrociocchi al Forum dell’Economia Digitale, la scorsa settimana a Milano.
Non è difficile trovare dati attendibili o fonti autorevoli per analizzare un qualsiasi fenomeno sociale, culturale o economico. Un tempo risorsa scarsa, oggi le infomazioni sono molto più accessibili e, con un minimo di impegno, di migliore qualità rispetto al passato. Eppure, il fenomeno delle fake news cresce in modo esponenziale e i correttivi finora proposti dalle istituzioni e dalle piattaforme digitali sembrano produrre ben poco effetto.
Più che sulla diffusione e la viralità delle bufale, secondo Walter Quattrociocchi dovremmo concentrarci su qualcosa di ancora più pericoloso, ovvero la rinuncia delle persone a esercitare il senso critico e la progressiva chiusura sulle informazioni che confermano la propria visione del mondo. È il cosiddetto confirmation bias, che ci spinge a rimanere all’interno di comfort zone rassicuranti, in cui non facciamo altro che rafforzare le nostre convinzioni e – al tempo stesso – radicalizzare i nostri pregiudizi.
Da uno studio condotto nel 2015 su 54 milioni di utenti Facebook è emerso che solo un utente su dodici interagisce con voci contraddittorie: il fatto di leggere e condividere solo ciò con cui siamo d’accordo, dai migranti ai vaccini, dalla politica all’economia, senza nemmeno verificarne la fonte o il contenuto, aumenta in modo rilevante la possibilità di incappare in una notizia falsa e diventarne (in)volontaria cassa di risonanza. E, infatti, il 91% dei temi che polarizzano le discussioni sui media è argomento di fake news.
Anche i dati perdono la loro imparzialità perché, contando sulla limitata volontà interpretativa di chi ascolta, vengono continuamente piegati per sostenere la tesi di chi parla. Con un duplice effetto: rinforzare e diffondere il consenso degli alleati (“Nella nuova politica, voto a parte, l’indicatore numero uno è il pollice”, ha scritto Denise Pardo sull’Espresso), e scatenare la reazione degli avversari. Anche le pratiche note come debunking, che hanno l’obiettivo di smontare le bufale attraverso le argomentazioni e l’intervento di esperti, hanno spesso l’effetto opposto, ovvero quello di gettare benzina sul fuoco dei complottisti e allontanare del tutto i moderati o gli indecisi.
Se non esiste un unico modo o una ricetta di sicuro successo per combattere le fake news, alcuni brand provano a giocare la carta dell’empatia e abbassare il livello di polarizzazione, nel tentativo di riportare il confronto su toni più neutri e dunque ragionevoli. Abbiamo imparato a considerare la reputazione come un asset strategico delle aziende, ma oggi – come ricordava Matteo Flora dallo stesso palco – non possiamo pensare di costruirla solo sui fatti o i numeri. Nell’epoca delle fake news, la reputazione è una percezione, che si alimenta dei discorsi e delle conversazione che i diversi stakeholder portano avanti, in Rete e oltre la Rete.