Abbiamo poca fiducia della politica e delle istituzioni, dei media e persino delle ONG. Ma siamo più propensi a considerare il datore di lavoro una fonte affidabile di informazioni e conoscenza
Fidarsi è bene, dubitare è meglio. Negli ultimi anni abbiamo preso le distanze da tutti i soggetti che avevano maggiore influenza nella formazione della pubblica opinione. Complice la crisi economica e le paure che circondano molti fenomeni sociali, il calo di fiducia ha colpito soprattutto le istituzioni tradizionali come i governi e i partiti politici, la scuola, ma anche i media, accusati di non saper controllare il dilagare delle fake news.
Siamo tornati a fidarci delle relazioni più vicine, quelle su cui pensiamo di avere maggior controllo. Il Trust Barometer 2019 di Edelman registra un dato interessante per quanto riguarda le imprese: le persone si fidano molto più del proprio datore di lavoro (75%) che delle ONG (57%), delle aziende in generale (56%), del governo (48%) e dei media (47%). In particolare, il 58% vede nel datore di lavoro una fonte affidabile di conoscenza sul mondo esterno, soprattutto sui temi che riguardano l’economia, il progresso tecnologico, i cambiamenti sociali.
La fiducia nella propria azienda supera l’85% in Indonesia e Cina, ma è una tendenza sostanzialmente globale (in Italia siamo al 72%). Non sorprende che, quando i dipendenti danno più credito al datore di lavoro, sia superiore alla media la disponibilità a diventare brand ambassador (+39 punti), così come i livelli di coinvolgimento (+33 punti), fedeltà (+38 punti) e motivazione (+31 punti).
La fiducia non è però un fatto acquisito, piuttosto un capitale su cui bisogna continuare a investire. La ricerca delinea un nuovo patto tra collaboratori e imprese, in cui la fiducia aumenta e si rafforza dove l’azienda si mostra capace di andare oltre il ‘business as usual’. Come? Ad esempio partecipando attivamente al cambiamento sociale (lo auspica il 67% del campione), favorendo la crescita dei singoli individui (74%), creando nuove opportunità professionali (80%).
Cresce dunque la richiesta di un maggiore attivismo civile e politico, aspettativa che riguarda in prima battuta la figura del CEO. L’indagine rileva infatti che il 71% delle persone vorrebbe sentire di più la voce del proprio CEO, anche su questioni controverse, mentre il 76% pensa che i CEO dovrebbero guidare il cambiamento, muovendosi prima delle istituzioni.
E proprio su queste direttrici – l’autenticità, il corporate activism, la leadership e l’autorevolezza del CEO – occorre ripensare la comunicazione interna e corporate, interrogandosi su come trasformarla in un moltiplicatore di fiducia.