Da un punto di vista psicologico, la comunicazione legata al Covid-19 è stata caratterizzata da un eccesso di informazioni, una crescente sfiducia verso le fonti, una totale paralisi temporale.
Un’emergenza improvvisa, che ha stravolto l’orizzonte socio-cognitivo delle persone e generato un’enorme domanda di informazione, a cui il sistema ha risposto con un’offerta spropositata: tra il 21 febbraio e il 19 aprile, i media italiani hanno prodotto oltre 1 milioni di contenuti relativi al Covid-19 (fonte: Agcom). Ma le notizie erano necessariamente parziali, frammentate, soggette a continui aggiornamento, e questo non ha fatto altro che peggiorare la ‘fame’ di chi voleva sapere.
La comunicazione nella fase 1 è andata quindi in cortocircuito. Se la guardiamo con la lente della psicologia, possiamo riassumerla in tre parole: eccesso (quello che l’OMS ha definito infodemia), sfiducia (ovvero la carenza di vettori organizzativi rispetto all’affidabilità delle informazioni), paralisi temporale (ovvero la difficoltà di formulare un’interpretazione di tipo prospettico, orientata al medio e lungo termine).
Tutto questo ha contribuito a minare la salute mentale delle persone: cosa si sarebbe dovuto e potuto fare meglio? “Dobbiamo fare attenzione a non cadere in un bias cognitivo molto frequente, che è quello del senno di poi”, ha spiegato la scrittrice e consulente Annamaria Testa, intervenendo a un incontro promosso dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia proprio sul tema della comunicazione legata al Covid-19. “Tanto le istituzioni quanto i cittadini si sono trovati in una situazione eccezionale. È però evidente che alcuni errori sono stati fatti. Ai comunicatori pubblici possiamo rimproverare la scarsa chiarezza e l’incapacità di adottare un codice linguistico che fosse condiviso con i destinatari. Da parte loro, i cittadini hanno consumato l’informazione con la voracità tipica del web e dei social media, quindi con superficialità e una buona dose di incompetenza. Era inevitabile che il mix fosse esplosivo”.
La comunicazione abbondante, ma disordinata e spesso contraddittoria ha lasciato spazio alle fake news e ha finito per minare la fiducia nei confronti delle istituzioni e anche della scienza, cui inizialmente era stato dato grande credito. “Nelle prime settimane le persone guardavano agli esperti con l’atteggiamento mentale caratteristico del pensiero magico, cioè aspettando soluzioni immediate e risposte definitive”, ha commentato Paolo Moderato, psicologo e docente all’Università IULM di Milano. “Quando si è capito che la scienza ha tempi molto più lunghi e non può offrire certezze incontrovertibili, la fiducia ha lasciato il posto a una cocente delusione. Non ha certo aiutato vedere virologi e immunologi litigare fra loro, contendendosi il favore delle telecamere”.
Alle radici della sfiducia c’è anche un’altra ragione, che possiamo descrivere come la sproporzione quasi paradossale tra la drammaticità della pandemia, raccontata dalle immagini potenti dei reparti di terapia intensiva, i camion dell’esercito che portano via le bare dei defunti, il Papa che prega da solo in Piazza San Pietro, e le raccomandazioni fin troppo semplici per prevenire il contagio (controllare la febbre, lavarsi spesso le mani, tenere le distanze). “Non è facile per l’individuo accettare di partecipare a una battaglia tanto pericolosa con mezzi così banali. Da qui la necessità di assegnare a medici e infermieri il ruolo di eroi, e trovare dei nemici da combattere porta a porta, come i runner o i vicini che non indossano la mascherina”, ha aggiunto Moderato.
La comunicazione costruita per accumulo e il proliferare di autorità ed esperti (novelli “Cannavacciuoli del Covid”, li ha definiti con ironia il giornalista Gianmarco Bachi) ha prodotto un ulteriore effetto, quello di paralizzare le persone nella dimensione temporale dell’emergenza, dove domina la paura e non si riescono a mettere i fatti in prospettiva, guardando oltre la contingenza.
Come uscire dall’impasse e gestire meglio la comunicazione post-emergenza? “Occorre lavorare sul linguaggio con l’obiettivo di tradurre materie complesse in contenuti semplici e comprensibili, indicare dei criteri piuttosto che dettare regole, allargare l’orizzonte spaziale e temporale”, ha suggerito Annamaria Testa.
“La comunicazione potrebbe ispirarsi alla teoria dei nudge”, ha concluso Paolo Moderato. “Nei termini dell’economia comportamentale, si tratta di proporre con una spinta gentile quei comportamenti e quelle scelte che, passata la fase 1, sono più opportuni e dunque più desiderabili, evitando di focalizzarsi continuamente su imposizioni e divieti”.