Spaventare, scuotere le coscienze, responsabilizzare, gratificare, entusiasmare. Negli anni la comunicazione sociale ha cercato di intercettare in modo diverso il pubblico e deve oggi innovare ulteriormente il proprio linguaggio per raggiungere le persone che sempre più spesso donano in modo estemporaneo dallo smartphone.
Tutto parte da un fatto, ben fotografato dalla ricerca Donare 3.0 di Doxa: gli italiani continuano a essere generosi, ma al sostegno regolare e ricorrente a un ente di fiducia preferiscono le donazioni occasionali o l’acquisto di prodotti solidali. Come è facile immaginare, i bollettini postali stanno cedendo il passo all’invio di denaro tramite la carta di credito e lo smartphone, e crescono in misura interessante anche canali più giovani come il crowdfunding e il personal fundraising.
Per parlare a un donatore con l’occhio fisso al display del cellulare serve una comunicazione diversa, più veloce innanzitutto ma anche più in sintonia con il nuovo orizzonte culturale e valoriale che si è andato consolidando nell’ultimo decennio. Non c’è più spazio per le campagne di denuncia che abbiamo visto negli anni Novanta, quando ad attivare il destinatario era soprattutto la paura delle conseguenze negative di comportamenti e scelte personali – celebri, a questo proposito, gli spot sui temi dell’Aids, la droga, il fumo.
Come evidenziato da un recente studio condotto dall’Università IULM per Mediafriends, all’inizio degli anni Duemila quel tipo di comunicazione ha lasciato il posto a campagne basate su valori altruistici e un linguaggio responsabilizzante, qualche volta con toni commoventi e sentimentalistici, ad esempio quando si parlava di interventi contro la fame e la povertà, adozioni a distanza, progetti per la tutela della natura, degli animali e del territorio.
Tutto è cambiato dopo il 2007: la crisi economica globale ha spinto la comunicazione sociale di nuovo verso l’individualismo, con immagini e parole che puntavano a gratificare il sostenitore per il suo impegno. Ne è un esempio la campagna Unicef lanciata in occasione del Natale 2015, dove l’indignazione è il presupposto per convincere chi guarda a fare qualcosa per salvare i bambini in situazioni di pericolo. L’utilizzo più spinto dell’emozione è in questo caso mirato a sollecitare azioni semi-impulsive, che non richiedono un vero impegno ma si esauriscono in un gesto come l’invio di un sms o una donazione online.
Negli ultimi anni la comunicazione sociale si è avvicinata ancora di più allo storytelling e il branding tipico delle aziende, puntando a essere credibile e rilevante per il consumatore-sostenitore, proponendo storie in cui identificarsi e usando un linguaggio realistico in cui mescolare con maggior equilibrio emozione e razionalità. Questo anche perché – lo dice ancora Donare 3.0 – quasi il 70% delle persone non è disposto a sostenere enti che non permettono di verificare come vengano utilizzati i fondi raccolti o i risultati raggiunti. Dopo i fatti e le polemiche che hanno travolto grandi organizzazioni come Oxfam o Medici Senza Frontiere, il bisogno di trasparenza è ancora più forte e ineludibile.
Ma l’avvento di campagne meno emotive, giocate sull’ironia e il coinvolgimento dell’audience è un fenomeno cominciato già prima dei recentissimi scandali. Basta riguardare la campagna Cesvi del 2015, dove si parla di cooperazione attraverso l’esperienza bizzarra di Carlo, oppure l’iniziativa del FAI, sempre datata 2015, in cui sono i palazzi storici a ingaggiare un dialogo con i potenziali sostenitori. Campagne interessanti, che segnano l’inizio di una nuova stagione della comunicazione sociale.