Non tutte le aziende hanno bisogno di blogger ultracelebri per raggiungere il loro pubblico. Interagire con community più piccole ma omogenee si rivela spesso la strategia vincente. Parliamo di micro influencer con Jolanda Restano di Fattore Mamma
La scelta di affidarsi a un testimonial per ampliare la visibilità di un brand e il suo raggio d’azione è già stata percorsa, con alterne fortune, da moltissime aziende. In Italia si è cominciato ai tempi di Carosello, e non ci si è più fermati. Abbiamo visto le marche affidarsi ad attori, cantanti e celebrity (Nino Manfredi per Lavazza o George Clooney per Nespresso, solo per parlare di caffé), inventare dei personaggi fittizi (dall’ippopotamo Pippo dei pannolini Lines a Nyma dell’ultima campagna Mulino Bianco), persino diventare testimonial di se stessi, come Giovanni Rana per i suoi ravioli.
Con l’avvento dei social si è aperta un’altra possibilità, ovvero quella di avere come endorser personalità con una forte notorietà in Rete, moltiplicando il prodotto e il brand attraverso le loro attività su Facebook, YouTube, Instagram e affini. È stata la moda con le fashion blogger a cavalcare per prima questa tendenza, con un successo esplosivo e derive che hanno richiesto l’intervento di Agcom per imporre la riconoscibilità dei contenuti sponsorizzati, dunque pubblicitari.
Se i digital influencer più celebri hanno milioni di fan e follower – e incassano decine di migliaia di euro per ogni post – si è fatto largo il dubbio che non sempre sia utile inseguire i social VIP di turno. Va così crescendo l’interesse per gli “influencer della porta accanto”.
“Non si tratta di personaggi che devono il loro seguito a una visibilità acquisita in altri campi, ma persone che attraverso la Rete e i social hanno saputo creare intorno a sé delle community di follower. In queste community, anche se numericamente limitate, sono davvero influenti, nel senso che il loro parere e i loro consigli sono considerati autorevoli”, ci spiega Jolanda Restano, co-fondatrice del network Fattore Mamma.
Aggregare una comunità ristretta ha due vantaggi. Innanzitutto la possibilità di costruire un rapporto autentico, un vero dialogo tra il micro influencer e il suo micro mondo. Poi la specializzazione, perché in genere la community è raccolta intorno a un tema, un’interesse o una passione per cui il blogger è riconosciuto come fonte autorevole. Proprio la credibilità è la chiave di volta perché un progetto sia efficace, insieme alla capacità di costruire contenuti mirati e rilevanti.
“Tutte le aziende dichiarano concordi che, perché una campagna funzioni, bisogna che blogger e brand condividano gli stessi valori. Questo dunque il primo elemento da considerare. Poi il blogger deve avere influenza e autorevolezza nel segmento di interesse del brand e riuscire a creare engagement verso i contenuti creati”, continua Jolanda.
Micro influencer di tutto rispetto sono le mamme blogger, almeno 2 mila in Italia stando al database di Fattore Mamma, con profili diversissimi tra loro. “Ci sono i diari personali che trattano i temi caldi legati alla gravidanza e la maternità partendo dalla propria esperienza”, dice Jolanda. “Ma ci sono anche food blog, travel blog, craft blog che trattano questi argomenti con la sensibilità che solo una mamma possiede”.
È importante selezionare micro influencer seri e professionali, che aggiungano alla competenza sul tema specifico anche una buona padronanza degli strumenti che le piattaforme social oggi rendono disponibili. No quindi a blogger improvvisati, alla larga anche da chi gonfia l’audience ricorrendo a falsi follower o interazioni fasulle, una pratica che però – confermano da Fattore Mamma – gli addetti ai lavori impiegano poco a smascherare.
E come misurare i risultati di una campagna? “Fondamentale concordare all’inizio gli obiettivi da raggiungere. Al di là di metriche quantitative come il numero di impression o le interazioni, un progetto di successo può migliorare awareness e reputazione di una marca, avvicinandola ai suoi consumatori”, conclude Jolanda.