Crisis Management Team

Quanto conta un buon Comitato di Crisi?

Benché quasi il 70% delle aziende si aspetti di dover fronteggiare almeno un'emergenza nei prossimi dodici mesi, solo il 50% ha in essere un piano di crisis management e ha nominato un Comitato di Crisi, sostiene uno studio dell'Institute for Crisis Management.

Se la maggior parte degli stakeholder sono solidali con le aziende colpite da un disastro inaspettato, quasi nessuno è disposto a scusare una reazione confusa o disorganizzata, un marchio che abbia ignorato le avvisaglie di un problema rifiutando di intervenire, un leader che sottovaluti le conseguenze di una situazione critica.

Proprio la leadership è una delle dimensioni da valutare con maggior attenzione nei percorsi di crisis preparedness. In genere la responsabilità di gestire una crisi è affidata al Comitato di Crisi, ma chi dovrebbe farne parte? E chi dovrebbe guidarlo?

Il compito principale del Comitato di Crisi è quello di coordinare la risposta all'evento critico cercando di mitigare l'impatto sulle persone, gli asset aziendali (inclusa la reputazione), le attività e non ultimo l'ambiente, riportando l'organizzazione a uno stato di normalità il più rapidamente ed efficientemente possibile. I membri del Comitato di Crisi includono i responsabili degli affari legali, delle divisioni operative, della comunicazione e le risorse umane, compresi anche alcuni rappresentanti del board. Altri manager senior o degli esperti possono essere selezionati e coinvolti se le circostanze specifiche lo richiedono.

Nelle realtà più grandi e strutturate, è prassi nominare e formare dei Comitati di Crisi a livello locale, regionale e corporate, attivandoli in modo sequenziale a seconda della gravità e l'estensione geografica della crisi. Le responsabilità possono anche essere distribuite per competenza.

Il board non deve essere coinvolto nella gestione di qualsiasi crisi. I membri del board devono certamente essere informati e pronti a prendere parola se e quando necessario, ma è opportuno lasciare il crisis management a una figura senior, che conosca bene l'organizzazione e le sue attività. A guidare il Comitato di Crisi non deve essere per forza il CEO, né il dirigente più anziano o alto in grado.

Il leader deve avere un mix di potere decisionale, esperienza e qualità personali. Deve saper valutare con sensibilità e precisione situazioni inattese e sconosciute, coordinare il lavoro del Comitato di Crisi, mantenere una visione strategica mentre supervisiona la risposta operativa, essere credibile e autorevole anche nei momenti più difficili. Ma non cercate un super-eroe: il miglior leader è quello che sa ispirare il team, aggregare le risorse, costruire fiducia e aiutare tutti a lavorare in sinergia per raggiungere gli obiettivi condivisi.

 

Nella foto: Una delle rare immagini disponibili della ‘Cabinet Office Briefing Room A’.  Situata a Londra, probabilmente presso 70 Whitehall, molto vicino a 10 Downing Street, è la stanza in cui si riunisce il comitato di emergenza del governo britannico quando una crisi minaccia il Regno Unito o dei cittadini all'estero.

Il comitato – chiamato COBRA proprio dal nome di questa specifica sala – ha la responsabilità di decidere e coordinare la risposta del governo di Sua Maestà di fronte a situazioni rilevanti a livello nazionale, regionale o internazionale. Di solito è guidato dal Primo Ministro e, a seconda del tipo di emergenza, ne fanno parte alcuni ministri, funzionari della sicurezza o dei servizi segreti, militari, sindaci o rappresentanti di altri enti pubblici.

La prima seduta del COBRA è stata convocata per delineare la risposta del governo Heath di fronte all'imponente sciopero dei minatori del 1972. In anni recenti, il COBRA si è riunito ad esempio dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001, gli attentati di Londra nel luglio 2005 o alla Manchester Arena nel 2017. Nel marzo e luglio 2018, due riunioni sono state indette per discutere la linea del governo rispetto all'avvelenamento degli agenti Sergei and Yulia Skripal a Salisbury, e il successivo episodio avvenuto ad Amesbury.


sfiducia

Se la notizia è cattiva

Non è semplice metterci la faccia quando i risultati sono negativi, un progetto viene cancellato, uno stabilimento deve essere chiuso o trasferito, si perdono posti di lavoro. Ancora peggio, quando si tratta di incidenti o fatti tragici che travolgono la vita delle persone e delle loro famiglie. A chi riveste un ruolo di leadership viene chiesto di essere pronto ad assumersi l’onere di questo genere di comunicazioni, consapevole che non esista un manuale d’istruzioni da seguire, né sia sempre possibile trovare il modo di presentare il bicchiere mezzo pieno.

Le neuroscienze ci offrono alcuni strumenti per comprendere meglio l’impatto che una brutta notizia può avere, in particolare come determinati stimoli vengono raccolti ed elaborati dal nostro cervello. In condizioni normali, sono i lobi frontali dell’encefalo le strutture che permettono di sviluppare il pensiero, la creatività e le azioni di ordine superiore. Tuttavia, quando i nostri sensi percepiscono la presenza o la possibilità di un pericolo, entra in gioco l’amigdala, un vero e proprio sistema di allarme che attiva tutti i meccanismi necessari a gestire l’emergenza.

È stato il neurobiologo Joseph LeDoux a studiare il funzionamento dell’amigdala e quello che conosciamo come istinto di sopravvivenza. Semplificando, possiamo dire che, di fronte a una minaccia, la ghiandola prende immediatamente il controllo del lobo frontale, di fatto facendo prevalere l’emozione sulla razionalità. All’amigdala è sufficiente una rappresentazione approssimativa del pericolo, dunque anche poche e generiche informazioni, per innescare tre possibili reazioni, tutte ispirate dalla paura: l’attacco, la fuga oppure il congelamento che, nei casi più gravi, può portare fino allo stato di shock.

Quando è l’amigdala a dettare le regole, l’individuo non è in grado di ragionare in modo logico, né di ascoltare. Il suo comportamento è condizionato anche dal gruppo, per cui non è infrequente che, se l’assemblea reagisce alla cattiva notizia aggredendo il portavoce, anche una persona in genere mite possa partecipare all’attacco verbale o fisico.

Occorre molta sensibilità ed empatia per riuscire a gestire situazioni di questo tipo, che dovrebbero sempre prevedere un’adeguata fase di preparazione per definire sia i messaggi da veicolare, sia le modalità più opportune per comunicarli. Ove possibile, l’esperienza suggerisce di evitare gli strumenti freddi come l’e-mail, il telefono o la videoconferenza, preferendo invece degli incontri individuali (se il fatto riguarda una o poche persone), oppure collettivi (riunioni e assemblee). Benché più complessa e faticosa per il portavoce, l’interazione faccia a faccia permette di valutare meglio l’impatto della notizia e impostare i passi successivi – difficilmente una cattiva notizia si esaurisce infatti in una singola comunicazione.

Se le circostanze lo consentono, può essere utile applicare la tecnica del ricalco, mutuata dalla PNL, ovvero provare a rispecchiare le espressioni verbali e i gesti dell’interlocutore per rassicurarlo e trasmettergli un senso di maggiore vicinanza. Anche l’utilizzo di domande aperte potrebbe aiutare a riportare il discorso su toni più razionali, stimolando i lobi frontali del cervello che l’amigdala aveva messo all’angolo.

Non va infine sottovalutato il carico emotivo a cui il portavoce stesso è sottoposto: quali reazioni suscita in lui la comunicazione che deve dare? Un sistema spesso efficace per ridurre lo stress è quello di costruire una sorta di cordone di sicurezza, affiancando uno o due colleghi che condividano il pesa della notizia e siano titolati a intervenire in caso di necessità.


cyber crisi

Cyber crisi, stakeholder e trasparenza

Il cybercrimine è ormai una vera e propria industria globale, con organizzazioni ben strutturate e azioni tanto efficaci da produrre danni che nel 2021 potrebbero toccare i 6 trilioni di dollari l’anno. L’attenzione delle aziende è decisamente aumentata negli ultimi anni, anche per effetto della normativa che è diventata più severa in fatto di protezione dei dati e dei sistemi digitali con cui vengono trattati e conservati. Nonostante gli investimenti siano rilevanti (ad esempio nel settore medico e finanziario, tra i più bersagliati), il rischio di essere vittima di una cyber crisi non è affatto remoto.

La cyber crisi – ovvero la crisi innescata da un attacco informatico – ha una dinamica particolare rispetto ad altre situazioni di emergenza. A differenza di incidenti ed eventi avversi che sono immediatamente visibili, tra l’attacco e il momento in cui esso diventa di dominio pubblico possono passare settimane, mesi, a volte persino anni. Ricordiamo ad esempio il caso di Yahoo, oggetto di due data breach nel 2013 e 2014, che sono stati resi noti soltanto nel 2016. L’impatto, inizialmente stimato nella violazione di 1 miliardo di account utenti, si è in realtà esteso a quasi 3 miliardi di account utenti – configurando il più grave data breach di tutti i tempi.

In una cyber crisi, se l’organizzazione colpita non riesce a gestire la comunicazione con tempestività, rischia di lasciare un lungo periodo vuoto che, una volta scoperto, può seriamente minare la fiducia degli stakeholder, nonché la reputazione della stessa azienda e dei suoi brand.

Nel paper “Managing stakeholder communication during a cyber crisis”, Caroline Sapriel, fondatrice e managing partner di CS&A International, sottolinea come l’indignazione degli stakeholder possa far degenerare la crisi in un vero tracollo reputazionale. Ci sono esempi virtuosi in cui la gestione efficace delle relazioni con i media e gli stakeholder ha contribuito a mitigare i danni (Sapriel ricorda Norsk Hydro, il produttore norvegese di alluminio vittima di un attacco informatico nel marzo 2019, e il massiccio attacco contro Twitter nel luglio 2020, con la violazione di moltissimi profili personali), ma anche molti casi in cui la mancanza di trasparenza ha finito per avere conseguenze molto serie sulla reputazione, oltre a costi considerevoli. Gli hotel Marriott e Cathay Pacific vi dicono niente?

Una comunicazione chiara, tempestiva, trasparente e coerente è fondamentale in qualsiasi situazione di emergenza, ma a maggior ragione nelle cyber crisi dove la risoluzione del problema potrebbe richiedere parecchio tempo, e l’escalation potrebbe essere più veloce del previsto.

Serve allora una preparazione particolarmente accurata, che includa l’analisi delle vulnerabilità specifiche, la mappatura degli stakeholder esterni e interni, la definizione degli scenari possibili, la formazione ad hoc dei membri del Comitato di crisi e dei portavoce. Un percorso non banale, ma tutt’altro che superfluo.


processo mediatico

Le Litigation PR per proteggere la reputazione nel processo mediatico

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cortocircuito tra la magistratura e il sistema dei media, per cui ci siamo abituati – nostro malgrado – alla spettacolarizzazione di arresti e processi, intercettazioni e notizie coperte da segreto investigativo buttate in prima pagina, dibattiti che dai giornali rimbalzano sui social determinando la colpevolizzazione preventiva del presunto responsabile dei fatti. Accade con esponenti politici, personaggi pubblici, aziende e manager, ma anche privati cittadini quando parliamo di cronaca nera.

Il processo mediatico precede quello giudiziario, tende a prevaricarlo mettendo a rischio l’imparzialità di chi segue le indagini e la serenità di chi deve poi giudicare, annienta la privacy e la reputazione di chi è coinvolto. Non è una storia nuova: da Enzo Tortora a Mani Pulite, da Daniele Barillà a Mafia Capitale, potremmo fare moltissimi esempi di processi arrivati a sentenza ancora prima di approdare in tribunale. Ermes Antonucci, giornalista de Il Foglio, ne ha raccontati una ventina in un libro appena uscito, ‘I dannati della gogna’.

Non importa chi alla fine è stato condannato e chi ne è uscito innocente, quello che stiamo dicendo riguarda entrambi i fronti, anche se ingenuamente può sembrare meno grave se le accuse vengono poi confermate. Il processo mediatico, soprattutto quando particolarmente feroce, contraddice il principio della presunzione di innocenza che è dichiarato nella nostra Costituzione (l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, dice l’articolo 27) e oggetto della Direttiva europea nr. 343 del 2016, che il Governo italiano è stato sollecitato a recepire con la legge nr. 53 dell’aprile 2021.

Certamente la presunzione di innocenza e il rispetto della privacy devono essere controbilanciati dal diritto di cronaca, perché è legittimo e utile che i media diano notizia delle vicende giudiziarie e ne seguano i percorsi. Tuttavia, il diritto di cronaca – secondo la dottrina giuridica – può essere esercitato a tre condizioni, ovvero che si racconti la verità, anche solo putativa purché frutto di un lavoro diligente di ricerca, che l’informazione data abbia un’utilità sociale, che si garantisca una forma civile, tanto nell’esposizione dei fatti quanto nella loro valutazione. In pratica, questo significa che non bisogna eccedere lo scopo puramente informativo, lavorare con lealtà e chiarezza, evitare qualsiasi offesa anche indiretta (è il requisito della cosiddetta continenza dell’informazione).

Non è sempre così, purtroppo. Nonostante l’impegno di tanti giornalisti corretti e scrupolosi, le analisi fatte dall’Unione delle Camere Penali italiane e dall’associazione Antigone rivelano che oltre il 60% della copertura mediatica di vicende giudiziarie ha un approccio colpevolista verso gli indagati o un atteggiamento acritico rispetto alle ipotesi dell’accusa. C’è inoltre un’enorme sproporzione tra l’attenzione dei media nella fase preliminare delle indagini e quella che viene dedicata alla fase dibattimentale del processo, ancor peggio alla sua conclusione. Non aiuta il fatto che le sentenze arrivino dopo molti anni, a volta anche dieci, ma è esperienza comune che i paginoni dell’arresto diventino poco più che trafiletti quando si pronuncia la Corte di Cassazione, magari con un’assoluzione definitiva.

La degenerazione del circo mediatico-giudiziario, come lo ha definito Daniel Soulez Lariviere, si evita se tutte le parti agiscono con responsabilità, nel rispetto del proprio ruolo ma consapevoli delle conseguenze che le informazioni possono avere dopo essere diventate di dominio pubblico – e date in pasto ai social dove le opinioni si polarizzano velocemente e il senso critico non abbonda.

Lo aveva scritto già nel 1987 Leonardo Sciascia sul quotidiano spagnolo El País: “Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa tra innocentisti e colpevolisti – in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli”.

In tutto questo, quale voce può avere l’indagato e la difesa dell’imputato? Analogamente a quello che accade nelle situazioni di crisi, le prime fasi tendono a essere una ‘reverse story’, in cui la narrazione è quasi del tutto subita. Le litigation PR, nate più di 30 anni fa negli Usa e oggi abbastanza diffuse anche in Italia, possono diventare strategiche nella gestione del processo mediatico e della comunicazione nel corso dell'intero procedimento, con l’obiettivo di tutelare la reputazione dell’azienda e dei soggetti coinvolti e, per quanto lecito e possibile, influire sull’esito e le conseguenze del giudizio (la definizione è di James F. Haggerty).

Ad occuparsi di litigation PR sono spesso gli stessi esperti di comunicazione di crisi, cui servono però competenze aggiuntive in materia giuridica e di contenziosi legali. Non è raro lavorare a quattro mani con gli avvocati e gli studi legali, oppure avere dei consulenti dedicati all’interno degli stessi studi.

La tutela della reputazione richiede la progettazione di uno storytelling molto accurato, che dia conto della posizione dell’assistito rispetto alle responsabilità che vengono contestate e possa sostenere il lavoro dei difensori. Se si parla di questioni complesse, come un reato ambientale o una truffa finanziaria, il ruolo delle litigation PR è anche quello di facilitare la comprensione dell’argomento, dando elementi il più possibile neutrali sia ai giornalisti che seguono il caso, sia attraverso i social o altre occasioni di comunicazione non mediata.

L’intento deve essere quello di promuovere una lettura equilibrata della vicenda, in cui le posizioni dell’accusa e della difesa possano essere accostate senza esacerbare i toni. Vanno senza dubbio rettificate tutte le informazioni false o quelle che, pur corrispondendo al vero, sono pregiudizievoli o diffamatorie.

Il lavoro delle litigation PR deve spingersi oltre le media relations: ci sono infatti molti altri stakeholder che, anche quando la copertura mediatica andrà scemando, continueranno a interessarsi al caso e a comportarsi sulla base dell’opinione che se ne saranno fatti. Pensiamo ai dipendenti dell’azienda, ai suoi clienti e ai business partner, per cui ha senso pensare un piano di comunicazione ad hoc e dei momenti precisi di intervento.

La ricostruzione o il consolidamento della reputazione dopo che il processo si è esaurito, almeno a livello mediatico, è in effetti una fase molto delicata. Si tratta di lavorare sugli interlocutori con cui è necessario recuperare terreno il più rapidamente possibile, e gettare le basi di una nuova fiducia.


Prima della crisi: la comunicazione del rischio

La comunicazione del rischio consiste nell'insieme dei processi e degli strumenti che, se ben gestiti, possono aiutare le persone a difendersi da minacce di tipo ambientale, sanitario e sociale.

Nel 1976 potevamo ignorare i pericoli connessi a un’impianto come l’Icmesa di Seveso, forse ancora nel 1986 potevamo non conoscere le conseguenze di un’incidente nucleare come quello di Chernobyl. Oggi nella nostra società abbiamo il diritto di sapere e non è più accettabile per un cittadino essere tenuto all’oscuro dei rischi che corre vivendo in un certo territorio, mangiando un certo cibo, prendendo un certo farmaco.

Ma non è solo questione di diritti. La corretta informazione che ruota intorno ai rischi per la salute o l’ambiente rappresenta un’opportunità per orientare le scelte individuali verso comportamenti responsabili, tutelando se stessi e gli altri. Nell’epoca della post-verità è però più frequente che, su questioni complesse come l’obbligo vaccinale o la costruzione di un impianto energetico, il rischio venga strumentalizzato e usato per alimentare sospetto, paura, rifiuto.

Prendiamo ad esempio l’influenza. I dati dell’OMS parlano di 44mila morti all’anno in Europa per colpa di sindromi influenzali, di cui 34mila over 65 anni. Eppure nella metà dei Paesi UE si vaccina meno di un anziano su tre, e in Italia siamo passati dal 66% di anziani vaccinati del 2009 al 49% del 2015. Perché? I motivi sono diversi, dalla mancanza di raccomandazioni da parte degli operatori sanitari alla presenza di alcune barriere all'accesso, ma è indubbio che la resistenza culturale e il crollo di fiducia nei confronti dei vaccini sia cominciato nel 2009, ovvero nella stagione della pandemia di influenza H1N1.

L’OMS lanciò l’allarme internazionale in aprile, elevandolo in giugno al livello 6, pari al massimo dell'emergenza. Quella che è stata riconosciuta come la prima pandemia del XXI secolo fece scattare misure straordinarie in tutto il mondo, con campagne vaccinali su ampia scala e accordi con le industrie farmaceutiche affinché fornissero i vaccini a tempo di record. In Italia fu Novartis a firmare un contratto con il Ministero della Salute per 24 milioni di dosi al costo di 184 milioni di euro.

Come è noto, la pandemia si rivelò molto meno pericolosa del previsto e registrò un tasso di mortalità inferiore allo 0,1% (contro lo 0,2% circa dell'influenza normale). L’eccessiva enfatizzazione del rischio portò quindi a sovrastimare alcune decisioni e generò un’onda di critiche sia nei confronti dell’OMS, sia dei governi nazionali, accusati di essersi lasciati condizionare dalle case farmaceutiche e aver inutilmente sprecato denaro pubblico. Nel 2013, una ricerca pubblicata dal Journal of Epidemiology and Community Health attribuì la responsabilità dell’allarmismo esagerato non solo alle istituzioni, ma anche alla comunità scientifica, sollevando il tema dei conflitti d’interessi che spesso rendono opache le relazioni tra la ricerca e Big Pharma.

In Italia Novartis consegnò 10 milioni di vaccini, di cui ne furono somministrati solo 900mila. In Lombardia, il 90% delle dosi rimase inutilizzato. Non bastarono gli spot TV con Topo Gigio a calmare le acque: ancora oggi il caso dell’H1N1 è sbandierato dai detrattori dei vaccini e del relativo obbligo (che non riguarda peraltro l’antinfluenzale).

Se un recente sondaggio rileva che solo il 2-3% delle famiglie italiane oppone un netto e motivato rifiuto alle vaccinazioni, una più efficace comunicazione del rischio potrebbe raggiungere e coinvolgere quel 20-30% di genitori che invece esitano a vaccinare i figli e rimandano la decisione. Entriamo qui nel campo della cosiddetta ‘consensum communication’, dove la comunicazione diventa una leva strategica per mitigare il conflitto, favorire il dialogo e mediare su temi che richiedono scelte partecipate e condivise.