Il corporate activism non è per tutti

A differenza della Corporate Social Responsibility, il corporate activism implica dissenso. È una strada faticosa, che alcune aziende decidono di percorrere prendendo posizione.

“La nostra storia è fatta di impegno ambientale e sociale, ma ci siamo resi conto che le scelte dei singoli e delle aziende non bastano a innescare un vero cambiamento e salvare il pianeta. Occorre fare un altro passo in avanti e assumersi un impegno che sia anche politico”, racconta Stefano Bassi, coordinatore delle iniziative ambientali di Patagonia Store Milano. L’esperienza di Patagonia – nota per la forte opposizione all’amministrazione Trump e per tante campagne di successo, tra cui Artifishal contro gli allevamenti ittici intensivi – è tra le più interessanti ascoltate all’Università IULM di Milano, in una momento di confronto tra aziende, professionisti della comunicazione e studenti proprio sulle potenzialità e i limiti del corporate activism.

Negli ultimi anni la pressione è aumentata. Le persone chiedono alle aziende di scendere in campo, partecipare al dibattito pubblico e colmare il vuoto che le istituzioni e la politica lasciano davanti a sé. Ma non si tratta solo di fare la propria parte o restituire alla comunità parte del valore creato.

Diversamente dalla Corporate Social Responsibility, le attività di lobby o altre pratiche come l’issue management, il corporate activism presuppone un dissenso e la volontà di sollecitare il cambiamento politico, sociale, culturale. “Siamo abituati a vedere le imprese bersaglio dell’attivismo dei consumatori, degli ambientalisti, a volte degli stessi dipendenti. Oggi però molte aziende scelgono di non essere più soggetti passivi, ma attivi e prendono una posizione esplicita su temi rilevanti e controversi, andando oltre il proprio business”,  spiega Alessandra Mazzei, docente di Comunicazione d’Impresa alla IULM.

Contro l’omofobia e le discriminazioni LGBT si sono schierate ad esempio IKEA con la campagna #FateloACasaVostra, Netflix con la decorazione arcobaleno della stazione Porta Venezia a Milano (nella foto), oppure Ristora e Menarini che hanno sospeso gli investimenti pubblicitari su Libero dopo una violenta prima pagina anti gay.

Non si può fare corporate activism, bisogna essere activist: ecco perché questa strada non è per tutti. È per le aziende che hanno un solido purpose, la forza e le risorse per trasformare le dichiarazioni in azioni, le spalle abbastanza larghe per sopportare le critiche. È per le aziende che sanno motivare le proprie persone – dal CEO all’ultimo dei collaboratori – a schierarsi a loro volta.

“Con il corporate activism, l’azienda si scopre comunità in relazione con altre comunità”, aggiunge Marco Magli dell’European Association of Communication Directors. Una relazione spesso tumultuosa, che tuttavia nel lungo periodo può far crescere stima e fiducia, con risultati positivi anche in termini economici.

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