Per parlare di sostenibilità (e non solo), le aziende devono sempre più mettersi dalla parte degli stakeholder e attivare una comunicazione circolare
Nell’epoca del content shock, con una quantità di contenuti disponibili che supera di gran lunga la capacità di fruizione del singolo, la comunicazione delle aziende deve compiere “una metamorfosi”. Così Rossella Sobrero, presidente di Ferpi, ha introdotto la scorsa settimana il workshop organizzato dal CSR Manager Network come momento di confronto e discussione sull’utilizzo efficace del web e dei social media per raccontare l’impegno sociale e ambientale delle imprese.
La comunicazione – come l’economia – è diventata circolare, perché ogni contenuto e messaggio alimenta una conversazione ben più ampia e multidirezionale, in cui i confini tra strumenti e canali diventano sempre più labili. Le aziende cercano nuove modalità per farsi ascoltare, calandosi sempre di più nei panni degli stakeholder, fino ad adeguare le proprie modalità narrative a quelle tipiche degli individui. “In Rete vediamo persone che si comportano come brand, e brand che comunicano come persone”, ha spiegato James Osborne di Lundquist.
Sui temi della sostenibilità, esempi di personal branding vanno dall’attivista Greta Thunberg alla giornalista Paola Maugeri, dal fondatore di Plastic Bank David Katz al CEO di Snam, Marco Alverà. Per comunicare come un brand bisogna conoscere bene la comunità di riferimento e avere ottime capacità di ascolto per intercettare i temi più rilevanti, avere la competenza necessaria per costruire contenuti di qualità e distribuirli nei canali giusti, tenere vive le conversazioni, far crescere le relazioni e posizionarsi come fonte autorevole e microinfluencer all’interno della propria rete. In altre parole, saper applicare su di sé la metodologia alla base del content marketing.
Anche le aziende seguono più o meno lo stesso percorso ma, in cerca di autenticità e di un maggiore coinvolgimento dei propri interlocutori, hanno cominciato a lasciarsi ‘contaminare’ dalle persone.
Questo vuol dire ad esempio dare un volto e una voce a chi vive l’azienda, ovvero i dipendenti. Un caso molto interessante è quello della compagnia di assicurazioni Generali che, dopo l’esperienza dello Storymaker Club, recentemente ha lanciato una campagna di employer branding affidando ai collaboratori il compito di parlare ai potenziali futuri colleghi (si veda Il Sole 24 Ore di sabato 15 febbraio 2020). Anche i vertici possono – di più, devono – essere ambasciatori della loro organizzazione: secondo lundquist.trust 2019, il 71% dei CEO italiani ha un profilo LinkedIN attivo, ma oggi solo il 28% lo usa per parlare dell’azienda.
Un’altra strada passa dall’aggiustamento del tono di voce che, vestendo contenuti e messaggi, definisce la personalità e il carattere dell’impresa o della marca. Esattamente come accade per le persone, le aziende si riconoscono per il linguaggio che usano e il modo in cui si relazionano con gli altri. Occorre quindi mettere da parte il lessico corporate e trovare uno stile che sia autentico, in sintonia con chi ascolta, capace di emozionare e magari far divertire.
Operazione tutt’altro che facile, in cui bisogna tener conto della propria storia, ma anche della concorrenza. Così Ceres ha trovato nell’ironia la sua cifra distintiva, Eni ha provato a cambiare registro espressivo con la campagna +1, Save the Duck ha raccontato la strategia di sostenibilità presentando il mondo come la propria casa (“quite an open space”).
Se la comunicazione è circolare, i brand hanno capito che il loro storytelling, per quanto originale o dirompente, non sarà mai efficace quanto ciò che raccontano le persone vere. Tanto vale prendere ispirazione.