Nel 2000 la nostra soglia media di attenzione era intorno ai dodici secondi, oggi si dice non superi gli otto. Forse è per questo che leggiamo molte più notizie sul web, ma siamo sempre più distratti e facciamo fatica ad andare oltre la prima schermata. Chi crea contenuti digitali ha in mente le 500 parole delle news, i 280 caratteri di Twitter, i 60 secondi dei video TikTok.
Eppure, i formati lunghi (longform) non sono del tutto scomparsi, anzi da qualche anno sono tornati a far parte dell’offerta di molti gruppi editoriali. In Italia abbiamo le analisi sportive de L’Ultimo Uomo, con tempi di lettura mai inferiori ai 5 minuti, ma sono ormai frequenti su contenitori generalisti come Repubblica.it e Corriere.it, anche come contenuti sponsorizzati. Esistono poi piattaforme internazionali – come Longreads e Longform – che raccolgono i migliori contenuti lunghi disponibili in Rete, raggruppandoli per argomento.
Il longform journalism è diventato una sorta di genere. Al di là della lunghezza del testo, parliamo di contenuti che vanno oltre la stretta cronaca o il suo commento, puntano all’approfondimento di fatti di ampio respiro (l’impatto della pandemia su settori e territori, i primi 100 giorni dell’amministrazione Biden, il caso Regeni, solo per citare qualche esempio recente) con un linguaggio che si avvicina più alla narrazione di una storia che al classico articolo di giornale. Non è un caso che spesso siano prodotti a più mani, mescolando competenze diverse per indagare meglio le sfumature politiche, economiche, sociali e culturali di ogni tema.
Così descritti, sembrerebbero destinati a un pubblico di nicchia, lettori affezionati e magari un po’ più preparati della media. Non è esattamente vero. Già nel 2015, una ricerca condotta dal Pew Research Center negli Stati Uniti aveva rilevato che gli articoli lunghi (oltre le 1.000 parole) e quelli corti hanno più o meno lo stesso numero di lettori, con un profilo abbastanza simile. Lo studio diceva anche che i longform riescono a coinvolgere l’utente per un tempo più che doppio degli shortform – segno che verosimilmente vengono letti fino in fondo, o quasi.
Cosa rende i longform adatti anche al grande pubblico? Due elementi meritano una riflessione. Intanto, la qualità del contenuto – che non è proporzionale alla lunghezza del testo (lo dice molto chiaramente l’ex direttore dell’Atlantic, James Bennet, in un editoriale contro l’uso del termine longform journalism), ma alla capacità di dare quel valore che interessa e tiene incollato chi legge, indipendentemente dal suo livello d’istruzione o dalla conoscenza del tema.
Poi, la tendenza dei longform a essere sempre meno testuali e sempre più multimediali. “Ci sono nuovi formati che sono in grado di esaltare e rendere attraente la lunghezza più di quanto riescano a fare gli articoli di testo: podcast, documentari, newsletter”, scrive Il Post nell’ultimo numero di Charlie.
Proprio la crescente popolarità dei podcast, con sessioni medie di ascolto che superano i 20-25 minuti, depone a favore dei formati tutt’altro che istantanei. Esempi dell’efficace integrazione di strumenti e risorse multimediali sono alcuni longform che hanno fatto scuola, come il viaggio del New York Times lungo la Via della Seta, l’inchiesta della BBC sui campi di reclusione in Cina, la scalata dell’Everest proposta dal Washington Post.
Per dirla con Sara Fischer, reporter della piattaforma Axios, “il longform journalism è più forte che mai. Si presenta solo in modo diverso”.
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