I dati del Digital News Report del Reuters Institute indicano che sono in molti a rifiutare categoricamente tutte le fonti di informazione, inclusi i giornali, le trasmissioni televisive o i feed dei social media. Altri agiscono in modo selettivo, con il 53% che sceglie di accedere alle notizie meno frequentemente e il 32% che evita determinati argomenti.
Le ragioni sono varie. Un fattore comunemente citato è il tempo: molti pensano che informarsi richieda troppo tempo e si limitano a una veloce sbirciata ai titoli. Ma questa non è probabilmente la motivazione principale.
Nel libro ‘Avoiding the News‘, gli autori Benjamin Toff, Ruth Palmer e Rasmus K. Nielsen spiegano che la giustificazione più ricorrente è “non sono io, sono le notizie”. I media sono percepiti come distanti dalla propria microrealtà e difficili da capire, in più fanno sentire le persone impotenti di fronte a problemi per cui non possono fare nulla. In un’epoca in cui l’informazione è pervasiva e abbondante, gli individui sono dunque sopraffatti dalla quantità di notizie disponibili e insoddisfatti dei contenuti.
Da considerare anche il possibile impatto negativo sul benessere personale. I media parlano di tragedie, conflitti e crisi, ospitano storie politiche e sociali fortemente polarizzate. Le persone preferiscono la disconnessione per proteggersi da informazioni ritenute angoscianti e deprimenti, ma anche per evitare di trovarsi esposte a fatti e opinioni che mettono in discussione le proprie convinzioni. Questo significa perdere contatto con una parte dell’attualità e fuggire dal confronto con chi la pensa diversamente, ma l’evitamento selettivo è una buona strategia per chi vuole restare nella propria comfort zone.
Anche la diffusione del sensazionalismo e della disinformazione ha generato una certa diffidenza verso i media. Alcuni scelgono di starne lontani piuttosto che rischiare di essere ingannati o manipolati da informazioni di cui non sanno verificare la correttezza.
Il fenomeno del rifiuto delle notizie è stato discusso lo scorso aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, dove si è provato a rispondere a questa domanda: possiamo far cambiare idea a chi fugge dall’informazione? Esiste un modo per migliorare la produzione e la diffusione delle notizie?
Può sembrare ovvio, ma la prima strategia è proporre storie semplici, concise e utili. Le notizie dovrebbero essere comprensibili anche quando affrontano questioni complesse e non richiedere troppo tempo né sforzo per essere digerite. Questo è ben dimostrato da esperienze di successo come gli explainer della BBC, la newsletter britannica ‘The Knowledge’ o il podcast ‘Morning’ de Il Post.
Visto le persone tendono ad apprezzare il giornalismo di servizio, funziona l’integrazione di contenuti costruttivi, pratici e orientati alla soluzione. Le notizie negative attirano ancora l’attenzione (almeno se parliamo di un pubblico maturo) ma, quando si tratta di argomenti come il cambiamento climatico, sappiamo che le narrazioni catastrofiche spingono le persone verso il disimpegno. Portare soluzioni e un po’ di speranza può quindi essere una buona idea.
Ha senz’altro senso sperimentare formati digitali più coinvolgenti, con contenuti video o audio. Ma ha senso anche investire in redazioni più inclusive e aperte alla diversità: non è solo una questione di equità, ma un modo efficace per raggiungere comunità che trovano i media mainstream irrilevanti e lontani dal loro sentire. Tra gli esempi presentati a Perugia, interessante quello del servizio pubblico canadese CBC, che ha cominciato a rivolgersi alle comunità indigene con una specifica strategia di contenuti.
Il rifiuto diffuso delle notizie è un problema serio. Se concordiamo con il motto del The Washington Post — “La democrazia muore nell’oscurità” — contribuiamo a diffondere l’educazione ai media e sosteniamo gli editori e i giornalisti che lavorano per tenere le persone informate e coinvolte.
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