La comunicazione del rischio consiste nell’insieme dei processi e degli strumenti che, se ben gestiti, possono aiutare le persone a difendersi da minacce di tipo ambientale, sanitario e sociale.
Nel 1976 potevamo ignorare i pericoli connessi a un’impianto come l’Icmesa di Seveso, forse ancora nel 1986 potevamo non conoscere le conseguenze di un’incidente nucleare come quello di Chernobyl. Oggi nella nostra società abbiamo il diritto di sapere e non è più accettabile per un cittadino essere tenuto all’oscuro dei rischi che corre vivendo in un certo territorio, mangiando un certo cibo, prendendo un certo farmaco.
Ma non è solo questione di diritti. La corretta informazione che ruota intorno ai rischi per la salute o l’ambiente rappresenta un’opportunità per orientare le scelte individuali verso comportamenti responsabili, tutelando se stessi e gli altri. Nell’epoca della post-verità è però più frequente che, su questioni complesse come l’obbligo vaccinale o la costruzione di un impianto energetico, il rischio venga strumentalizzato e usato per alimentare sospetto, paura, rifiuto.
Prendiamo ad esempio l’influenza. I dati dell’OMS parlano di 44mila morti all’anno in Europa per colpa di sindromi influenzali, di cui 34mila over 65 anni. Eppure nella metà dei Paesi UE si vaccina meno di un anziano su tre, e in Italia siamo passati dal 66% di anziani vaccinati del 2009 al 49% del 2015. Perché? I motivi sono diversi, dalla mancanza di raccomandazioni da parte degli operatori sanitari alla presenza di alcune barriere all’accesso, ma è indubbio che la resistenza culturale e il crollo di fiducia nei confronti dei vaccini sia cominciato nel 2009, ovvero nella stagione della pandemia di influenza H1N1.
L’OMS lanciò l’allarme internazionale in aprile, elevandolo in giugno al livello 6, pari al massimo dell’emergenza. Quella che è stata riconosciuta come la prima pandemia del XXI secolo fece scattare misure straordinarie in tutto il mondo, con campagne vaccinali su ampia scala e accordi con le industrie farmaceutiche affinché fornissero i vaccini a tempo di record. In Italia fu Novartis a firmare un contratto con il Ministero della Salute per 24 milioni di dosi al costo di 184 milioni di euro.
Come è noto, la pandemia si rivelò molto meno pericolosa del previsto e registrò un tasso di mortalità inferiore allo 0,1% (contro lo 0,2% circa dell’influenza normale). L’eccessiva enfatizzazione del rischio portò quindi a sovrastimare alcune decisioni e generò un’onda di critiche sia nei confronti dell’OMS, sia dei governi nazionali, accusati di essersi lasciati condizionare dalle case farmaceutiche e aver inutilmente sprecato denaro pubblico. Nel 2013, una ricerca pubblicata dal Journal of Epidemiology and Community Health attribuì la responsabilità dell’allarmismo esagerato non solo alle istituzioni, ma anche alla comunità scientifica, sollevando il tema dei conflitti d’interessi che spesso rendono opache le relazioni tra la ricerca e Big Pharma.
In Italia Novartis consegnò 10 milioni di vaccini, di cui ne furono somministrati solo 900mila. In Lombardia, il 90% delle dosi rimase inutilizzato. Non bastarono gli spot TV con Topo Gigio a calmare le acque: ancora oggi il caso dell’H1N1 è sbandierato dai detrattori dei vaccini e del relativo obbligo (che non riguarda peraltro l’antinfluenzale).
Se un recente sondaggio rileva che solo il 2-3% delle famiglie italiane oppone un netto e motivato rifiuto alle vaccinazioni, una più efficace comunicazione del rischio potrebbe raggiungere e coinvolgere quel 20-30% di genitori che invece esitano a vaccinare i figli e rimandano la decisione. Entriamo qui nel campo della cosiddetta ‘consensum communication’, dove la comunicazione diventa una leva strategica per mitigare il conflitto, favorire il dialogo e mediare su temi che richiedono scelte partecipate e condivise.
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