La comunicazione di un brand vive sempre meno dei contenuti veicolati attraverso i canali ufficiali, e sempre più di quello che le persone vivono e raccontano, siano esse clienti, consumatori o meglio ancora dipendenti. Proprio i collaboratori sono diventati – grazie alla Rete – i primi ambasciatori dell’azienda, la cui narrazione cambia, si arricchisce e trasforma attraverso i loro volti e la loro esperienza.
Diverse ricerche hanno provato a quantificare gli effetti positivi del dinamismo social dello staff, scoprendo ad esempio che il coinvolgimento rispetto a un contenuto può aumentare di oltre 5 volte se questo viene condiviso da un dipendente, che il 44% degli utenti LinkedIN si candida più volentieri per una posizione aperta se questa viene segnalata da un conoscente, che i programmi di employee influencer possono far aumentare il fatturato del 26% da un anno all’altro [qui un’infografica che riassume vari studi disponibili sul tema].
Se molte aziende invitano esplicitamente i collaboratori (anche attraverso incentivi) a promuovere il brand e i suoi contenuti sui social, ci sono alcuni effetti collaterali da considerare e possibilmente prevenire.
Sui tempi e le modalità di utilizzo dei social, ad esempio. Incoraggiare le persone a diventare una voce narrante significa autorizzarle a usare le piattaforme in orario di lavoro e attraverso gli strumenti aziendali. Senza arrivare al caso della segretaria di uno studio medico licenziata per l’accesso smodato e ingiustificato a Facebook, si dovrà tollerare che qualcuno ceda alla tentazione di utilizzare i social in ufficio anche per scopi privati, e attrezzarsi per aumentare le difese in fatto di cybersicurezza.
Controllare quello che i dipendenti postano (o non postano) è un altro grande tema. Dal punto di vista dell’azienda, il monitoraggio dei profili personali dei collaboratori è importante per verificare che non vengano rese pubbliche informazioni confidenziali, né vengano diffusi contenuti denigratori o comunque lontani dallo storytelling desiderato. Ma fin dove è lecito esercitare questo controllo, e con quali strumenti?
In Italia, diverse sentenze hanno stabilito che i social non sono indenni dal reato di diffamazione e, di conseguenza, il dipendente che pubblica contenuti ingiuriosi o offensivi nei confronti del datore di lavoro può essere oggetto di provvedimenti disciplinari e persino licenziato. E non è una scusa il fatto che la persona fosse molto stressata, o avesse inteso le sue affermazioni come uno sfogo personale fine a se stesso (così si esprime la sentenza della Cassazione n. 10280/2018).
La definizione di una policy chiara e condivisa per l’utilizzo dei social media è quindi più urgente che mai, sia per scongiurare comportamenti pericolosi per la reputazione dell’azienda, sia per innescare il volano positivo dell’employee advocacy. Al di là delle regole, è però la maturità delle persone a fare la differenza – decidere cosa è opportuno postare e cosa no, quali parole usare e quali immagini scegliere, è (anche) questione di sensibilità e buon senso.
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