Il purpose accelera la crescita, ma richiede coerenza (e investimenti)

Le aziende purpose-driven crescono di più nel medio-lungo periodo, ma solo se sanno fare scelte coraggiose sopportandone i costi.

Negli anni Sessanta un’azienda su venti rischiava di finire fuori mercato, travolta dai cambiamenti tecnologici, economici e socio-culturali che rendevano i mercati difficili da prevedere. Oggi la volatilità è ben più marcata e il pericolo di fallire entro i prossimi cinque anni riguarda un’impresa su tre. Ma non sono le dimensioni, la capacità finanziaria o il potenziale innovativo a mettere un’organizzazione al sicuro. È piuttosto la consapevolezza della direzione da tenere e della sua ragion d’essere, ovvero del suo purpose.

Se già nel I secolo d.C. Seneca scriveva che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”, il purpose risponde a una domanda molto semplice, eppure profondissima: perché l’azienda esiste? Qual è il suo scopo ultimo? Più della missione, prima dei valori o di qualsiasi orientamento strategico, è il purpose a esprimere quello che l’organizzazione vuole essere e il ruolo che vuole avere nel mondo.

Il purpose non è “un claim né un’astuzia del marketing”, ha sottolineato Francesco Guidara, director di Boston Consulting Group, durante l’incontro organizzato la scorsa settimana da The Ruling Companies. Il purpose “vive nell’agenda del CEO” perché rappresenta un impegno autentico che ispira e guida ogni funzione, ogni processo, ogni decisione. Spinge l’organizzazione al di fuori dalla sua comfort zone e, benché debba essere in sintonia con le sfide della contemporaneità, resiste nel tempo.

Sono numerosi gli studi che dimostrano come le aziende purpose-driven tendano ad avere risultati superiori nel medio-lungo periodo, sappiano motivare meglio i collaboratori e attrarre più talenti, abbiano clienti più fedeli e relazioni più solide con gli stakeholder. Ma il purpose non è solo un acceleratore di sviluppo, è anche un costo, e questo aspetto viene spesso sottovalutato dalle imprese.

Il purpose costa perché “impone una coerenza nell’agire che comporta investimenti anche rilevanti in una molteplicità di ambiti”, ha ricordato Gianmario Verona, rettore dell’Università Bocconi di Milano, citando come esempi i meccanismi di compensazione e incentivazione delle persone, la revisione delle strutture e dei ruoli organizzativi, la comunicazione. Più ancora, il purpose può portare l’azienda a fare scelte coraggiose in tema di partnership, acquisti e approvvigionamenti, politiche competitive, inclusione, iniziative a sfondo sociale.

La libertà di seguire il proprio scopo non può quindi ignorare la performance economica, perché solo un’organizzazione profittevole e con le spalle solide ha mezzi e risorse sufficienti per tener fede alla promessa contenuta nel purpose. In quest’ottica, le aziende purpose-driven sopperiscono oggi all’impossibilità e l’incapacità della politica e di molti governi di garantire progresso e benessere in tante aree, dalla tutela dell’ambiente alla salute, passando per l’educazione. Rimettendo al centro il senso più nobile della Corporate Social Responsibility, già espresso da Adriano Olivetti quasi 80 anni fa: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia”.

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