I rapporti tra aziende e media hanno più d’una zona d’ombra, in cui la pubblicità può diventare merce di scambio e fonte di condizionamento. Se la comunicazione d’impresa ambisce a diventare informazione, molti giornalisti storcono il naso quando si parla di brand journalism.
Al Festival Internazionale del Giornalismo abbiamo ascoltato l’esperienza di diverse aziende che hanno avviato progetti di brand journalism, diventando di fatto delle media company. Se alcuni giornalisti inorridiscono solo all’idea di accostare il termine ‘brand’ a ‘journalism’, tanti hanno applaudito quando è stata ricordata un’operazione come Cocainenomics, la grande inchiesta su Pablo Escobar e il cartello di Medellín realizzata da Netflix in collaborazione con il Wall Street Journal. È tuttavia facile ricordare che anche quel reportage è brand journalism, nato per promuovere la serie televisiva Narcos e correttamente pubblicato dal WSJ come ‘sponsor generated content’.
Da qui una prima considerazione. In un tempo in cui gli investimenti pubblicitari sono in calo e l’acquisto del giornale in edicola è un ‘atto eroico’ (cit. Federico Ferrazza, direttore di Wired Italia), i branded content contribuiscono a sostenere il fragile modello di business di molti editori, da tempo in bilico tra la necessità di ridurre i costi e trovare risorse per innovare e rimanere competitivi. Ecco perché, con buona pace dei giornalisti, sono sempre più numerose le testate che accettano e anzi cercano i contenuti sponsorizzati, anche detti native advertising.
Qualcuno ci vede non solo l’occasione per aumentare le entrate, ma anche l’opportunità di gettare luce proprio sulla relazione spesso opaca tra informazione e pubblicità. Non sempre le redazioni hanno infatti saputo difendersi dall’ingerenza degli investitori, per cui i branded content potrebbero essere un modo per ristabilire il confine tra quello che nasce dalla libera e indipendente analisi di un giornalista, e quello che invece deriva dalla sollecitazione di un’azienda. Lungi dal risolvere tutti i conflitti, ovviamente.
Se è bene che informazione e comunicazione d’impresa restino distinte perché rispondenti a soggetti con obiettivi diversi, è pur vero che le modalità di costruzione dei contenuti hanno degli aspetti in comune. I fatti, ad esempio. Negli ultimi anni il brand storytelling è stato inteso come strategia per coinvolgere gli interlocutori interni ed esterni agendo soprattutto sul terreno delle emozioni, ma sempre più la narrazione efficace porta con sè elementi fattuali, che sono la base del lavoro del giornalista.
Anche grandi organizzazioni non profit come Cancer Research UK, abituate a giocare sui sentimenti per raccogliere fondi a favore della ricerca contro il cancro, hanno cominciato a riconoscere che occorre parlare anche alla razionalità delle persone se si vuole conquistare la loro fiducia.
Da qui la seconda considerazione. Aziende e media fanno in realtà un mestiere molto simile, che è quello di creare dei prodotti e proporli in modo che siano appetibili per il loro pubblico di riferimento. Entrambi possono essere credibili – e quindi degni di fiducia – solo se portano valore, ovvero raccontando storie che abbiano senso e rilevanza per chi le ascolta. Tali storie possono nascere anche dalla collaborazione reciproca, purché gestita in modo trasparente e chiaramente riconoscibile come tale.
Nel rispetto di chi legge e, magari, vincendo il pregiudizio di chi scrive.